Il mondo visto da me

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Categoria: Gerarchia
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Ogni valore implica una gerarchia.

L'onore è una posizione gerarchica.

Ognuno vorrebbe dominare ogni altro.

Chi domanda è padrone, chi risponde servo.

Dietro ogni ideale si nasconde una gerarchia.

I primi della classe sono antipatici ai non primi.

Ad ogni cambiamento sociale cambiano valori e gerarchie.

Niente e nessuno può essere padrone di ciò di cui è parte.

Per poter comandare agli inferiori bisogna obbedire ai superiori.

Se non posso essere un buon condottiero, voglio essere un buon seguace.

La posizione gerarchica di una persona è relativa ad ogni altra persona.

Quante sciocchezze e falsità si dicono per giustificare i propri privilegi!

La gente considera i diversi come malati, inferiori o arroganti, mai superiori.

Spesso, per avere una buona interazione sociale, conviene farsi piccoli rispetto agli interlocutori.

Far parte di una gerarchia consente di soddisfare sia il bisogno di comandare, sia quello di obbedire.

Se vuoi essere simpatico ad una persona, non darle motivo di sospettare che essa sia meno sapiente di te.

Ogni umano è dominato dalla paura di essere dominato e dal desiderio inconfessabile di dominare gli altri.

Chi cerca di piacere agli altri rischia di sottomettersi ad essi. Io vorrei piacere agli altri dominandoli.

Un modo sicuro per rendersi antipatici a qualcuno è dimostrare di avere un'intelligenza maggiore della sua.

Il termine «generale» indica l'apice di una gerarchia, sia nel mondo militare che nella logica dei discorsi.

Due persone sono unite nella misura in cui condividono certe gerarchie etiche, estetiche, logiche e politiche.

Chi crede di appartenere a un rango sociale elevato tende a evitare situazioni in cui quel rango non è riconosciuto.

Quando il più debole non riconosce la superiorità del più forte, il più forte fa la guerra al più debole, e la vince.

Una delle cose più emozionanti nella vita di un umano è il cambio della sua posizione gerarchica, o l'illusione di esso.

Più amici e meno nemici, più inferiori e meno superiori, è ciò che ogni umano, consciamente o inconsciamente, desidera.

I concetti-chiave della natura umana: emozione, appartenenza, interazione, cooperazione, autorità, gerarchia, competizione.

La tecnologia ha reso la vita più facile per tutti. Ciò rende più difficile distinguere le persone eccellenti da quelle mediocri.

In una condivisione i ruoli possono essere simmetrici o asimmetrici. Il secondo caso implica una subordinazione del donatore o del beneficiario.

Ognuno vorrebbe (consciamente o inconsciamente) avere un certo dominio su ogni altro, nei limiti del possibile, cioè nei limiti consentiti dall'altro.

Da sempre l'uomo approfitta della sua superiorità fisica e politica rispetto ad altri per imporre loro la sua volontà e ottenere da loro ciò che desidera.

Tra le persone che rifiutano la competizione ci sono coloro che non temono di risultare perdenti e coloro che lo temono.

Chi è più in alto ride di chi è più in basso, e chi è più in basso odia chi è più in alto, tranne quando chi è più in alto aiuta chi è più in basso a salire.

Ognuno promuove le qualità che possiede, i giochi ai quali è vincente e le discipline in cui è più competente, ovvero competitivo. In tal modo ognuno promuove se stesso.

Il motivo che ci spinge a trovare difetti negli altri è che, per ogni difetto che troviamo, la nostra posizione nella gerarchia morale migliora rispetto a quelle degli altri.

Per essere felici è importante avere ruoli, posizioni gerarchiche, poteri e valore personale adatti a sé, e riconosciuti e accettati da un numero di persone sufficientemente grande.

Quando due persone si incontrano, ciascuna non può evitare di comunicare all'altra che la considera amica, nemica o indifferente, e che si sente superiore, inferiore o uguale ad essa.

La misura del potere sociale, ovvero dell'effettiva posizione gerarchica di un essere umano, è la sua capacità di premiare e di punire altri umani in funzione del loro comportamento.

L'effetto umoristico è dovuto a improvvise, drastiche, alternate salite e discese di qualcuno in qualche scala gerarchica causate dal cambiamento di significato di una azione, gesto o simbolo.

Se nessuno è peggiore di me io sono un mostro, e questo è per me inaccettabile. Perciò ho bisogno di dimostrare che ci sono persone peggiori di me, e quanto più grande è il loro numero, tanto megliore io sono.

La filosofia, mediante argomentazioni razionali, giustifica ciò che ci è simpatico, condanna ciò che ci è antipatico, e convalida e celebra le gerarchie che ci favoriscono.

Se non vuoi soffrire di solitudine, devi scegliere se essere intellettualmente pecora o pastore, e, nel secondo caso, devi competere per la miglior posizione nella gerarchia dei pastori e combattere contro la concorrenza.

Ognuno vorrebbe avere un certo ruolo e una certa posizione gerarchica nella società. Se non può ottenerli, può lottare per conseguirli, sopportare la frustrazione, isolarsi, o emigrare in un'altra società più promettente.

Quando due umani si incontrano (realmente, virtualmente o col pensiero) essi negoziano, rinegoziano o confermano (consciamente o inconsciamente) i ruoli e i livelli gerarchici reciproci che regoleranno le loro prossime interazioni.

Ci sono individui che non riescono ad accettare il fatto di essere meno intelligenti o meno saggi di altri, e perciò cercano in tutti i modi di trovare lacune o contraddizioni in ciò che le persone migliori di loro fanno o dicono.

È difficile parlare di differenze umane senza finire per parlare di superiorità e di inferiorità. È anche difficile avere opinioni diverse senza finire per parlare di superiorità o inferiorità di un'opinione rispetto ad un'altra.

Quando un non imbecille incontra un imbecille, è impossibile per il primo ritenersi uguale al secondo; infatti, se si ritenesse tale, sarebbe un imbecille. Tuttavia gli può convenire fingere di ritenersi uguale.

Umiltà e tolleranza possono essere deleterie se generalizzate. Bisogna essere umili e tolleranti solo quando è opportuno e con chi è opportuno esserlo. Infatti ci sono persone che non devono essere tollerate e persone di fronte alle quali non bisogna inchinarsi.

Quando una persona incontra una o più altre persone, deve scegliere come porsi rispetto ad esse nelle varie gerarchie (intellettuale, morale, tecnica, economica, politica, sportiva, ludica ecc.) riconosciute nella comune comunità.

La maggior parte dei filosofi, per ogni idea sensata e utile che esprimono, ne esprimono più di una inutile e/o insensata. Infatti i filosofi potrebbero essere valutati e ordinati in base al rapporto tra idee utili e sensate, e idee inutili e/o insensate da essi espresse.

Sono drammatici o umoristici i momenti in cui le appartenenze, i poteri o il prestigio di una persona si rafforzano o si indeboliscono. Il cambiamento è percepito come drammatico o umoristico a seconda della posizione dell'osservatore nei confronti del protagonista del cambiamento, e delle tensioni tra di essi.

Così come in ogni cellula c'è il DNA del corpo intero, nella mappa cognitivo-emotiva di ogni umano ci sono le regole dell'intero sistema sociale da esso percepito (forme, norme e valori, obblighi, divieti, libertà, gerarchie), nel rispetto delle quali esso interagisce con gli altri appartenenti allo stesso sistema.

Ci sono individui che, a causa di certe situazioni passate, odiano e/o temono profondamente gli altri in generale, e accettano di interagire con qualcuno solo in caso di bisogno e a condizione che l’altro si sottometta alla sua autorità, ovvero assuma un atteggiamento umile, servile o ossequioso nei propri confronti.

Per appartenere ad una certa comunità, una persona deve fare ciò che quella comunità si aspetta da un membro nel ruolo e nella posizione che la persona ha o desidera avere nella comunità stessa. In altre parole, per appartenere ad una comunità è necessario servirla, ovvero esserle utile. Non si può appartenere come parassiti.

Ogni cosa che facciamo o che esprimiamo in ambito sociale serve anche, o soltanto, a indurre negli altri (e nell’Altro generalizzato che è dentro il nostro sé) una certa immagine desiderabile di noi stessi in quanto appartenenti a certe comunità, a certe categorie e a certi livelli gerarchici.

Non si può convivere né cooperare senza rispettare delle regole. Il problema è: quali regole, e chi le stabilisce. Ognuno vorrebbe contare il più possibile nella definizione delle regole, ma solo i più potenti contano in tal senso. Di conseguenza ognuno vorrebbe (consciamente o inconsciamente) essere più potente possibile rispetto agli altri.

È interessante osservare come le questioni dell'esistenza di Dio e della validità/invalidità del pensiero religioso siano oggetto di discussioni lunghe e appassionate tra due campi avversi. E' una faccenda che sta molto a cuore sia dei credenti che dei non credenti, perché ne va della loro reputazione e autostima, della loro posizione nella gerarchia dell'intelligenza.

Ogni umano vorrebbe gli altri sottomessi a sé, ai propri interessi, ai propri dèi o ai propri principi morali e accusa di arroganza, ignoranza, stupidità, egoismo, asocialità, insensibilità o malvagità chi non si sottomette. D'altra parte, senza la sottomissione a qualcuno o a qualche regola morale condivisa, la cooperazione durevole tra esseri umani sarebbe praticamente impossibile.

Gli insiemi sociali (gruppi o categorie) sono costrutti mentali, e in quanto tali soggettivi. Essi sono tra loro in relazioni gerarchiche, le quali, per una sorta di proprietà transitiva, vengono assunte da ognuno dei loro appartenenti. Per esempio, se nella mente di A l'insieme sociale A è superiore all'insieme sociale B, nella mente di A ogni appartenente all'insieme sociale A è superiore rispetto ad ogni appartenente all'insieme sociale B.

Essere umili significa ammettere che vi siano disuguaglianze di valore tra gli esseri umani, e di valere meno di altri. Perciò non ha senso qualificare come umile una persona superdotata che nasconde le sue doti dietro una modestia di maniera. In ogni caso l'umiltà è sempre relativa alle persone con cui ci si paragona, nel senso che si può essere umili verso alcuni e allo stesso tempo presuntuosi verso altri.

Ogni tanto abbiano bisogno di sentirci in pace col mondo e con la società, e per questo abbiamo bisogno di sentirci uguali agli altri e di ricevere conferme che anche gli altri si sentano uguali a noi. Perciò ci piace celebrare rituali di comunione religiosi e civili, sacri e profani, formali e informali, pianificati e spontanei, in forma di feste, cerimonie, raduni, convegni ecc. Sono momenti di illusione collettiva di breve durata, dopo i quali tornano a imperare le differenze, le gerarchie, i privilegi, le esclusioni.

Quelli che vengono ritenuti arroganti e presuntuosi non fanno male a nessuno perché la loro presunta superiorità non viene riconosciuta e perciò non vengono creduti né seguiti. E allora perché i cosiddetti arroganti e presuntuosi, i non "umili", danno tanto fastidio a chi li ritiene tali? La mia risposta è che essi mettono in evidenza le inferiorità di chi li ritiene tali, cosa che li imbarazza. Chi ha una sufficiente e ben fondata autostima non è infastidito dagli arroganti, anzi ne è divertito perché non li considera rivali.

Ogni umano ha bisogno di essere accettato come membro di una comunità per lui congeniale, in un ruolo e un livello gerarchico corrispondenti alla propria autostima. Quando la stima ottenuta da una persona è inferiore alla propria autostima, si genera un'ostilità tra colui che si sente sottostimato e il sottostimatore, ostilità che comporta una crescente svalutazione reciproca. Se la discordanza di valutazioni non viene risolta, eventualmente con l'intervento di altre persone, colui che si sente sottostimato può essere indotto ad abbandonare la comunità da cui desiderava essere accettato.

La competizione serve a definire le posizioni degli individui in varie gerarchie: politica, economica, religiosa, morale, intellettuale, estetica, sportiva, fisica, sessuale, bellica (individuale o collettiva) ecc.

A mio avviso, è praticamente impossibile non competere, in quanto:
  • siamo animali sociali; 
  • la società richiede un’organizzazione; 
  • l’organizzazione richiede un ordine;
  • l’ordine richiede ruoli di legislazione e di polizia (regolamentazione e censura) a tutti i livelli;
  • tali ruoli richiedono gerarchie di potere;
  • ognuno preferisce comandare più che obbedire.

Ciò di cui non si parla è più importante di ciò di cui si parla. Per esempio, non si parla abbastanza del fatto che inconsciamente ogni umano tende ad ottenere e/o a difendere una posizione più alta possibile nella gerarchia intellettuale e morale della società in cui vive. Ma questa motivazione è rimossa dalla coscienza, e pochi la "confessano". Io la confesso pubblicamente, e cerco di controllarla per quanto posso. Il paradosso è che confessando questa "colpa" mi pongo in una posizione intellettualmente e moralmente superiore nei confronti di chi non la confessa e divento dunque arrogante, come chiunque pensi di saperla più lunga di qualcun altro. Insomma, non si esce da questa maledetta tragicommedia umana, molto umana.

Le valutazioni non sono fini a se stesse, ma servono a determinare comportamenti e rapporti nei confronti delle cose e persone valutate. Infatti una diretta conseguenza delle valutazioni interpersonali sono le gerarchie di potere, laddove chi riscuote le valutazioni migliori occupa le posizioni gerarchiche più alte e costituisce un modello di comportamento in senso politico, morale e/o estetico. Oltre alle gerarchie di potere, le valutazioni danno luogo a gerarchie di valori riferite a oggetti concreti e astratti, concetti, forme, narrazioni, metodi, classi etc. Tali gerarchie di valori possono essere più o meno condivise tra le persone e, in quanto oggetti di condivisione, possono assumere un valore sociale sovrapposto al valore intrinseco.

Le persone sono "costituzionalmente" più o meno sensibili e attente a non ferire il prossimo, cosa che le differenzia in più o meno "buone" o "cattive". Tuttavia, il ferimento, o l'offesa, che uno percepisce può non essere intenzionale, nel senso che uno può dire qualcosa all'interlocutore non per offenderlo o sminuirlo, ma per "aprirgli gli occhi", cioè per mostrargli qualcosa di reale che quello non vede, mentre il ricevente percepisce il messaggio solo come un'offesa o una umiliazione. In altre parole, un gesto di "generosità intellettuale" può essere frainteso come manifestazione di arroganza e di sopraffazione. Per tale motivo, chi più sa dovrebbe evitare, se possibile, di svelare la sua maggiore sapienza a coloro che non gli chiedono di farlo.

Mi trovo in un negozio di giornali e libri. Ogni giornale, rivista, libro, mi pare un oggetto religioso, nel senso che illustra uno stile di vita, forme, norme, valori, gerarchie, una comunità di pensiero e di comportamento. Leggere un certo giornale, rivista o libro, significa confermare la propria appartenenza al sistema sociale da esso rappresentato, e prepararsi ad adeguare il proprio comportamento a quanto in esso contenuto. In altre parole, significa acquisire o confermare una certa identità, un certo modo di essere, e la conoscenza del linguaggio e delle forme per esprimerlo e per interagire con altre persone di simile appartenenza. Hegel diceva che "il giornale è la preghiera del mattino dell'uomo moderno" e nonostante io non ami questo filosofo, credo che in questo caso abbia detto una grande e profonda verità.

Appartenere ad un insieme implica avere un certo ruolo nell’insieme stesso. Intendo dire che si può appartenere ad un insieme in vari modi, cioè assumendo vari ruoli. Di conseguenza, il bisogno o il desiderio di appartenere ad un certo insieme (come, ad esempio, un gruppo, un’organizzazione, una comunità) è condizionato dal ruolo che si vorrebbe avere in quell’insieme. In altre parole, certi ruoli sono considerati accettabili, altri inaccettabili, da chi aspira ad una certa appartenenza. D’altra parte ogni ruolo implica una certa posizione gerarchica. Conviene dunque chiederci non solo a quali insiemi una persona desidera appartenere o pensa di appartenere, ma anche in quali ruoli e in quali possibili posizioni gerarchiche.

A mio avviso, le competizioni più diffuse e importanti tra gli umani, da quando esiste la cultura, sono quelle intellettuali ed etiche. Intendo dire che ognuno cerca di occupare la posizione più alta che gli è possibile nelle gerarchie dell'intelligenza e della morale, e a tale scopo e in tali campi cerca di mostrarsi per quanto possibile non inferiore rispetto agli altri membri della comunità di appartenenza.

Di conseguenza, normalmente le persone non amano la compagnia di chi si dimostra più intelligente e/o più buono di loro. Lo trovano antipatico e cercano di screditarlo ad ogni occasione, anche mediante calunnie e critiche infondate.

Quei pochi che vengono riconosciuti come più intelligenti e/o più buoni a causa di prove indiscutibili possono essere accettati come leader o modelli di virtù, ma difficilmente come compagni, poiché metterebbero inevitabilmente in evidenza l'inferiorità e i difetti di coloro con cui interagiscono.

La volontà è sempre volontà di potenza, ovvero di dominanza, in quanto comporta l'imposizione della volontà stessa su una parte del resto del mondo in una certa misura. In altre parole, esercitare una volontà significa imporsi verso certe cose o certe persone, in certi modi, in certi ambiti più o meno estesi. Perfino quando cerchiamo di imporre la nostra volontà su noi stessi, cioè quando ci sforziamo di comportarci in certi modi non spontanei, lo facciamo per cambiare le nostre relazioni con il mondo esterno, ovvero per imporre a certe cose e/o a certe persone che ci circondano nuove relazioni con noi. Una volontà consiste in un bisogno o desiderio, e può essere più o meno soddisfatta o frustrata, determinando rispettivamente il benessere o malessere del volente. C'è dominanza di una persona X su una cosa o persona Y ogni volta che Y soddisfa una volontà di X.

A mio parere, l’invidia e la gelosia sono aspetti particolari della competizione tra esseri umani.  Infatti io suppongo che ogni umano. consciamente o inconsciamente, vorrebbe essere più competitivo degli altri e occupare i gradini più alti (per quanto possibile) nelle varie gerarchie sociali. In altre parole, ognuno preferisce essere superiore piuttosto che inferiore agli altri, comandare piuttosto che obbedire, servirsi dell’altro piuttosto che servire l’altro, anche se nella nostra cultura tale tendenza è spesso dissimulata in quanto considerata “politicamente scorretta” o immorale. In tale quadro, l’invidia e la gelosia sono. a mio avviso, sentimenti di chi si sente inferiore rispetto a qualcun altro o teme di diventarlo, e motivazioni miranti a invertire le rispettive posizioni in modo da ottenere una stabile supremazia al riparo dai tentativi altrui di conquistarla o riconquistarla.  

Quasi nessuno tollera di essere considerato intellettualmente e/o moralmente inferiore ad un altro in quanto individuo o in quanto membro di un certo gruppo o di una certa categoria di persone.  Questo fatto è illogico e funesto perché porta a credere che gli esseri umani abbiano tutti uguali capacità intellettuali e morali, cosa evidentemente falsa e assurda. Il fatto che sia difficile, se non impossibile, misurare oggettivamente il livello intellettuale e quello morale di una persona, non implica che che quel livello sia uguale per tutti. Tuttavia molti confondono l’uguaglianza dei diritti politici e della dignità umana (che qui non sono in discussione) con l’uguaglianza delle capacità e delle qualità dei comportamenti, inficiando, tra l’altro, le politiche meritocratiche sia nella pubbliche amministrazioni che nelle organizzazioni private. In conclusione, l’arroganza, la presunzione, la tracotanza sono più in coloro che non si considerano inferiori a nessuno, che in coloro che si considerano superiori a qualcuno.

Ogni cosa o persona ubbidisce e comanda ad altre cose o persone. Sia il comandare che l'ubbidire sono caratteristici della natura umana e fonti di piacere e conforto.

Obbedire e comandare sono due verbi oggi politicamente molto scorretti e rimossi dalla coscienza collettiva in quasi tutte le culture occidentali e democratiche , ma vivi e vegeti nell'incoscio di ogni essere umano e si manifestano in forme dissimulate, mascherate o sublimate.

Io sento, intuitivamente, che tutti noi esseri umani, anche i più democratici, anche i più anarchici, abbiamo bisogno sia di ubbidire che di comandare a qualcosa o a qualcuno, anzi, a più cose e più persone simultaneamente o alternatamente.

Anche nei rapporti amorosi obbedienza e comando possono intrecciarsi.

Le burocrazie e le gerarchie politiche, militari, religiose, industriali, accademiche, sono i sistemi in cui, per eccellenza, ognuno obbedisce e comanda allo stesso tempo, e non senza un piacere più o meno celato.

E' la natura umana, facciamocene una ragione e smettiamo di negare ipocriticamente e rimuovere nell'inconscio questi bisogni e piaceri "naturali".

Ogni scrittore o predicatore cerca di indurre i suoi lettori o ascoltatori ad apprezzare, lodare o adorare certi valori che egli incarna, possiede, descrive, rappresenta, persegue, vive o agisce in misura eccellente (realmente o come ingannevole apparenza).  Un lettore o ascoltatore che accetta un certo valore come tale, cioè come uno dei propri riferimenti filosofici (cognitivi, etici o estetici), si trova automaticamente posto in una scala gerarchica corrispondente al valore stesso. Infatti ogni lodatore, apprezzatore o adoratore di un certo valore misura continuamente (consciamente o inconsciamente) il grado di ottemperanza proprio e altrui riguardo ad esso, cioè il grado in cui quel valore è incarnato, posseduto, rispettato, rappresentato, perseguito, vissuto, agito da ogni persona considerata. Inoltre, un valore, se è sinceramente (cioè con fede) considerato tale, comporta una motivazione alla sua realizzazione e una competizione (tra coloro che lo condividono) per raggiungere e mantenere il livello di realizzazione più alto possibile. Questo vale per tutti i tipi di valore, da quelli più “materiali” o “economici” a quelli più “spirituali” o “morali”.

Il tema della gerarchia in un sistema sociale è spesso censurato e mistificato. Si cerca infatti spesso di nascondere il fatto che esiste una concorrenza più o meno violenta per ottenere e mantenere le posizioni gerarchiche più elevate, cioè per avere più potere, più possedimenti, più autorità, più prestigio, più onore, più stima, più gloria. Coloro che occupano le posizioni più elevate, e quindi le classi e le persone dominanti in ogni campo, tendono infatti a giustificare in vari modi le loro stesse posizioni privilegiate e non vedono di buon occhio, e osteggiano coloro che le mettono in discussione, le contestano o le sfidano. Spesso, inoltre, ci sono alleanze tra il potere politico e quello religioso per legittimare e giustificare reciprocamente i poteri stessi, al punto che la contestazione del potere politico può essere considerata un peccato religioso, e la contestazione del potere religioso un reato civile o politico. Tutta la vita sociale, la cultura e perfino la scienza sono tanto impregnate di lotta per il predominio gerarchico quanto impegnate a nascondere e a negare la lotta stessa e i loro conflitti di interesse. Risultato è che l'umiltà e la modestia sono considerate virtù e la presunzione e l'arroganza difetti. Tutto ciò serve solo a scoraggiare la competizione, a vantaggio di chi dalla competizione avrebbe da perdere.

Per essere felice, una persona ha bisogno di essere accettata dagli altri e di interagire in particolari ruoli e posizioni gerarchiche (intellettuali, morali, politiche, economiche, ecc.) di suo gradimento.

La difficoltà sta nel negoziare i ruoli e le posizioni gerarchiche, cioè nel trovare un compromesso accettabile da tutti i contraenti, dato che ciascuno aspira ai ruoli e alle posizioni più congeniali.

Possiamo chiamare "identità sociale" il particolare insieme di ruoli, competenze, qualità, capacità, abilità e posizioni gerarchiche che una persona desidera gli vengano riconosciuti o che gli altri possono riconoscergli. Le interazioni sociali possono quindi essere divise in tre tipi: (1) le meta-interazioni, cioè le interazioni finalizzate alla negoziazione delle rispettive identità sociali; (2) le interazioni cooperative basate sulle identità convenute, e (3) le interazioni (più o meno violente) che avvengono contravvenendo ad identità convenute o al di fuori di esse.

Le "ricompense sociali" che danno luogo alla produzione di ormoni come la dopamina e la ossitocina (che agiscono sul piacere e sulle motivazioni), dipendono dal successo ottenuto nelle meta-interazioni, nelle interazioni cooperative (economiche, politiche, intellettuali, sessuali ecc.) ad esse conseguenti e nella risoluzione, a proprio favore, di relazioni conflittuali o violente.

Mi piacerebbe trovare un libro sui conflitti umani che trattasse dei seguenti aspetti:
  • i cripto-conflitti, cioè i conflitti nascosti, dissimulati, o negati nonostante le evidenze;
  • i processi di escalation nei conflitti;
  • come si passa da una diversità di vedute su un certo tema ad un conflitto interpersonale, ovvero come una diversità di vedute viene percepita come arroganza, presunzione o prevaricazione;
  • le relazioni tra conflitto, competizione e gerarchia;
  • le relazioni tra conflitti e morale, ovvero come una morale può ridurre o aumentare i conflitti;
  • le relazioni tra conflitti esterni e conflitti interiori;
  • la possibilità di superare il livello logico di un conflitto: cioè anziché cercare di stabilire quale delle parti debba prevalere, comprendere perché il conflitto è nato, in cosa consiste e a cosa tende.

Una verità che riguarda uno o più esseri umani particolari può essere pericolosa sia per le persone affette da essa, sia per i suoi portatori. Il pericolo è dovuto al fatto che una certa verità può contenere implicitamente o esplicitamente un giudizio di valore, o esporre fatti che possono dar luogo a giudizi di valore, i quali possono essere più o meno favorevoli a certe persone.

Una persona affetta da un giudizio di valore negativo risultante da una certa verità sfavorevole può reagire in modo più o meno ostile nei confronti di chi è portatore di quella verità, oppure può negarla diffamandone in tal modo i portatori come ignoranti o bugiardi.

Tutto ciò avviene immancabilmente quando si parla di natura umana. Infatti, descrivendo il funzionamento dell’uomo, cioè le “vere” motivazioni del suo comportamento, è difficile che qualcuno non si senta giudicato “difettoso” o “inferiore” in qualche modo, dato che la società umana è ancora oggi in una situazione miserabile per “colpa” (ovvero per malvagità e/o incapacità) della maggioranza dei suoi membri.

Bisogna pertanto essere molto cauti nella narrazione di verità che riguardano la natura umana, perché più è vero e completo ciò che viene detto sull’uomo in generale, più persone saranno implicitamente giudicate e considerate responsabili dei mali della società.

Per questo motivo così poche persone sono interessate allo studio della natura umana.

Recentemente, nel gruppo Facebook “Psicologia, filosofia….” ho messo i seguenti post:
  1. Se qualcuno ti dicesse: "io sono più intelligente di te", come reagiresti?
  2. Se ti dicessi che sei intelligente, sincero e buono, cosa mi diresti?
  3. Se ti dicessi che sei stupido, falso e cattivo, cosa mi diresti?
Ad oggi il primo post ha ottenuto 101 commenti e 25 like, il secondo 72 commenti e 16 like, il terzo 36 commenti e 14 like. I commenti sono di diversi tipi: seri, scherzosi, ironici, neutri, impulsivi, ragionati, accondiscendenti, offensivi, raffinati, volgari, lunghi, brevi, più o meno superficiali. Ciò che trovo più interessante in questo esperimento non è tanto il contenuto dei commenti, nessuno dei quali ho trovato particolarmente sorprendente, ma la loro quantità, molto più grande di quella che i post che scrivo quasi ogni giorno nel gruppo normalmente ottengono. Come spiegare tanto interesse per questo genere di post?  Direi che dai risultati di questo esperimento si evince che ciò che più interessa alle persone è cosa pensano gli altri di loro, e in particolare la comparazione tra loro e gli altri nelle gerarchie sociali, cioè “chi vale di più”. In altre parole, siamo tutti costantemente preoccupati di non essere inferiori ad altri per quanto riguarda le nostre qualità umane (la nostra “umanità”) e le nostre competitività intellettuali e morali. Su queste cose siamo ipersensibili.

Dietro ogni attività ed espressione umana sono rilevabili ogni sorta di conflitti e alleanze di interessi.

Consideriamo, ad esempio, i giornali e i loro contenuti, cioè gli articoli e la pubblicità. Perché esistono i giornali? Perché esiste la pubblicità? Perché un giornalista scrive un articolo? A chi giovano queste cose? A chi le produce o a chi le usa? Non c'è dubbio che giovino a chi le produce, altrimenti non le produrrebbero. Dobbiamo allora chiederci se, e in che misura, esse giovino anche a chi le legge, e perché.

Io suppongo che il giornale rappresenti la comunità e serva ad informare i suoi membri sui valori e le regole della comunità stessa. Vale a dire: le gerarchie politiche, morali, estetiche ed economiche, i mercati e i prezzi, ovvero i valori di ogni cosa, cosa è "in" e cosa "out", bello e brutto, buono e cattivo, desiderabile e spaventoso, glorioso e infame e, soprattutto, cosa fanno gli altri, i rapporti di forza, la distribuzione delle ricchezze e del potere ecc.

Dobbiamo allora chiederci, con quale criterio vengono scelte le informazioni, cioè di cosa parlare e come parlarne, e di cosa tacere, dal momento che la scelta può favorire o danneggiare certe persone piuttosto che altre.

Le risposte a queste domande possono rivelare motivazioni più o meno oneste, meschine e malvagie, che possono nuocere al bene comune favorendo particolari persone o gruppi.

Una motivazione molto comune è quella di distrarre le masse e impedire che capiscano la realtà della propria situazione ed evitare che cerchino di cambiare lo status quo. Insomma, una motivazione conservatrice. Altre volte la motivazione può essere quella di cambiare l'assetto politico-sociale a favore di un certo partito o gruppo di persone. Nel migliore dei casi la motivazione può essere progressista, cioè a favore del bene comune attraverso riforme di leggi, atti di governo o cambiamenti di mentalità nella gente, ma ciò è piuttosto raro.

Per “intelligenza” intendo la misura della capacità di governarsi e di governare al fine di soddisfare al meglio e in modo sostenibile i bisogni propri e altrui. In tal senso, ritengo che sarebbe opportuno che una nazione fosse governata, per il suo bene, da una gerarchia basata sull’intelligenza, ovvero una gerarchia dove i più intelligenti occupano le posizioni di responsabilità e di comando più alte in ogni istituzione e organizzazione pubblica.

Questa idea, tuttavia, non piace alle persone di intelligenza mediocre, le quali la contestano con argomenti a mio avviso pretestuosi, ma convincenti per le persone di un livello di intelligenza comparabile con il loro.

Uno di questi argomenti è che non ci sono criteri oggettivi per misurare l'intelligenza di una persona. Un altro argomento è che ci sono tanti tipi di intelligenza, e uno può avere un'intelligenza alta di un certo tipo e bassa di un altro tipo.

Pertanto per la maggior parte della gente di oggi è giusto che governino coloro che sono preferiti dal maggior numero di persone, indipendentemente dal loro livello di intelligenza (di qualunque tipo essa sia).

Un'altra conseguenza di tale diffuso modo di pensare è che gli studi sull'intelligenza sono mal visti in quanto sospettati di intenzioni razziste e autoritarie.

Insomma, quello dell'intelligenza è un tema impopolare, con l'eccezione della cosiddetta "intelligenza emotiva", in cui possono eccellere anche persone con bassi livelli di intelligenze di altri tipi.


Ogni comunità (gruppo, organizzazione, associazione, società ecc.) è caratterizzata da valori condivisi dalla maggioranza dei membri della comunità stessa. Un valore implica il fatto che chi lo possiede, lo incarna o lo produce in una certa misura “vale” più (cioè è più rispettabile e pregevole) di chi lo possiede, lo incarna o lo produce in misura inferiore. Infatti, possiamo dire che ogni valore implica una gerarchia nella quale ogni persona occupa una posizione più o meno alta. In altre parole, è sempre possibile confrontare le posizioni gerarchiche di due persone rispetto ad un certo valore, ed è molto probabile che una delle due si trovi più in altro rispetto all’altra nella relativa gerarchia sociale. Non dobbiamo pensare alle gerarchie solo in termini di potere politico, di comando o di dominazione, ma anche in termini di moralità, di intelletto e di dignità in generale. Per esempio, in una comunità in cui il valore dell’altruismo è tenuto in grande considerazione, esiste una scala gerarchica dell’altruismo, per cui alcuni vengono considerati più altruisti di altri, e rispettati e stimati di conseguenza. E’ anche vero che a volte una posizione alta in una gerarchia “morale”, consente di ottenere una posizione alta anche in una gerarchia politica e/o economica. Tra i valori tipici delle società industriali più avanzate, troviamo: l’intelletto, la conoscenza, la capacità di governare, l’autocontrollo, l’altruismo, la saggezza, la preveggenza, la bellezza del proprio corpo, la bellezza dei propri averi, la salute, la forza fisica, la popolarità, il successo ecc. La logica che ho descritto è fortemente radicata nella mente di ogni essere umano (soprattutto a livello inconscio) e determina molti comportamenti sociali e molti sentimenti gradevoli o sgradevoli. Infatti ogni persona tende ad occupare e a mantenere le posizioni più alte possibili nelle varie gerarchie “valoriali” che caratterizzano la comunità a cui appartiene.

Quando due individui esprimono idee contrastanti è molto probabile che tra di essi si inneschi una competizione per la superiorità intellettuale, cioè per la posizione relativa più alta nella gerarchia dell’intelligenza e della conoscenza, ovvero della competenza di giudizio. In tal caso ciascuno interpreta l’opinione dell’altro come il tentativo di dimostrare di essere intellettualmente superiore, e tale supposizione provoca una reazione difensiva tesa a dimostrare che l’altro non gli è affatto superiore. Ritengo infatti che vi sia in ogni umano un istinto competitivo accompagnato dal timore di subire danni e svantaggi tanto più gravi quanto più bassa è la propria posizione gerarchica riconosciuta dagli altri membri della comunità di appartenenza. Ritengo inoltre che tale istinto competitivo abbia una funzione evoluzionisticamente positiva nel senso che le persone più competitive sono di fatto privilegiate nella vita in generale e in particolare nella scelta dei partner sessuali più sani e più dotati di risorse utili alla sopravvivenza e alla riproduzione. A causa di tale istinto competitivo e della dinamica, spesso inconscia, sopra descritta, l’eventuale discussione tra due persone a seguito di un loro disaccordo non mira alla comprensione delle argomentazioni altrui, ma a invalidarle e a dimostrare allo stesso tempo la validità delle proprie difendendole dai tentativi dell’altro di invalidarle. Questo fenomeno non avviene soltanto quando due persone si incontrano e discutono in presenza, ma anche quando una persona legge un libro o un articolo in cui sono espresse idee che contrastano con la propria visione del mondo. In tal caso il lettore svaluta l’autore. Tornando alle discussioni tra due persone, per quanto detto sopra, la loro dialettica, anziché essere costruttiva, diventa spesso una gara a chi la sa più lunga, che sfocia facilmente in aggressioni verbali e in reciproche accuse di arroganza. Per ridurre il rischio che ciò avvenga, è importante essere consapevoli del proprio istinto competitivo, essere capaci di tenerlo sotto controllo, e invitare l’interlocutore a fare altrettanto.

Ogni essere umano ha uno o più ruoli nelle relazioni di coppia, famiglia, comunità, società, umanità, perché ognuno di questi contesti è un sistema, ognuna delle cui parti interagisce con altre per scambiare informazioni, servizi, beni, oggetti, sostanze, energie al fine di un comune interesse, che è principalmente quello della sopravvivenza e dell'esercizio delle funzioni caratteristiche della propria specie biologica. Queste ultime vengono esercitate attraverso la ricerca della soddisfazione dei bisogni individuali innati e acquisiti.

I ruoli umani riguardano diversi tipi di relazione e di interazione. Per esempio, le gerarchie (ovvero chi comanda a chi, e, di conseguenza, chi obbedisce a chi), le appartenenze a certe categorie, chi guida e chi segue, chi dà e chi riceve, chi offre e chi prende, chi vende e chi compra, chi insegna e chi apprende, chi possiede cosa, chi giudica, chi governa, chi definisce le regole etiche ed estetiche e chi le segue, chi è responsabile di cosa, i diritti e i doveri, gli obblighi e i divieti, i privilegi, le libertà e i vincoli ecc.

Il ruolo di ciascuno è conosciuto poco e male dagli interessati. E' spesso inconscio, mistificato, variabile, incostante, molteplice, conflittuale. Esso viene svolto per lo più in modo inconsapevole, involontario ed automatico.

Il ruolo è solitamente complesso. Per ciascuno c'è infatti il ruolo reale, quello percepito, quello desiderato e quello riconosciuto e accettato da sé stesso e da ciascun altro.

Le interazioni umane sono basate sui ruoli delle persone in gioco. L'interazione è pacifica quando c'è un accordo sui rispettivi ruoli ed essi vengono svolti nel rispetto di quanto convenuto. L'interazione è invece conflittuale e/o violenta quando c'è disaccordo sui rispettivi ruoli o questi vengono svolti in modo diverso da come convenuto, contro la volontà di una o di entrambe le parti.

Il benessere dell'Uomo dipende dalla qualità delle sue relazioni e interazioni con i propri simili. Per migliorare i rapporti umani occorre una maggiore conoscenza, consapevolezza e negoziazione dei ruoli di ciascuno, e ciò può comportare la messa in discussione e il rifiuto di ruoli assegnati dall'educazione familiare e istituzionale, e dalle tradizioni e gli usi delle comunità di appartenenza.

Contraddire un discorso equivale a dire che esso è falso, cioè che afferma come vere cose non vere o inesistenti. Ogni umano ha paura di essere contraddetto da altri o di contraddire se stesso, perché ogni contraddizione equivale ad una diagnosi di stupidità, di ignoranza, di incapacità o di mala fede. Ciò è dovuto al fatto che dimostrare di essere stupido, ignorante, incapace o bugiardo implica dimostrare di non essere degno di far parte della società (o di esserlo meno di altri) e per l’inconscio essere esclusi dalla società equivale ad una condanna a morte. Una contraddizione costituisce un conflitto tra due affermazioni, che si negano e tendono a distruggersi reciprocamente, e,  di riflesso, un conflitto tra i due agenti che le sostengono. Questi possono essere due persone oppure l’io cosciente e l’inconscio, due componenti dell’io cosciente, o due componenti dell’inconscio. Gli esseri umani non perdono occasione per contraddirsi l’un l’altro, per dimostrare di saperla più lunga degli altri, di essere più degni di altri di far parte della società. Cercano in tal modo di dimostrare di essere più autorevoli e perciò di meritare un posto più alto di altri nella gerarchia dell’intelligenza e della dignità sociale. La contraddizione tra umani è dunque uno strumento di competizione sociale. Per quanto riguarda la coscienza di se stessi, rendersi conto di fare affermazioni contraddittorie induce a perdere la fiducia in se stessi, e questa perdita è per l’individuo una catastrofe esistenziale. Infatti non aver fiducia in se stessi implica non poter contare su se stessi, sulle proprie capacità cognitive, ed essere esposti ad ogni derisione, disprezzo ed emarginazione da parte di coloro che dimostrano meno auto-contraddizioni. La puara della contraddizione corrisponde a ciò che io chiamo "bisogno di coerenza", essendo la coerenza il contrario della contraddizione. Per concludere, la contraddizione può essere un’arma di competizione e una minaccia di emarginazione sociale. Per questo siamo tutti così preoccupati di non “cadere” in qualche contraddizione e di non essere contraddetti dagli altri. Insomma, la contraddizione è una delle maggiori causa di ansia per gli esseri umani.   

Da mattina a sera, e anche mentre dorme e sogna, l'Uomo non fa altro che mistificare, cioè ingannare se stesso e gli altri su tutto ciò che riguarda il bene e il male, l'onore, la reputazione, il prestigio, i valori, la superiorità e l'inferiorità, le gerarchie, il giusto e l'ingiusto, l'utile e l'inutile, l'umano, il bestiale, il mostruoso, il sano e il malato, il bello e il brutto, il sacro e il profano, l'intelligente e lo stupido, il colpevole e l'innocente, il credibile e l'incredibile, il vero e il falso, le cause e gli effetti.

Lo faccio anch'io.

Ognuno sembra dire: se vuoi star bene devi seguire i miei consigli, Se continui a star male è perché non li segui, e se non li capisci è perché non vuoi capirli. È quindi colpa tua se non stai bene nonostante i miei consigli. Se invece li hai seguiti e continui a star male, la colpa non è né tua né mia, ma di qualche stupido e/o malvagio che interferisce nella tua vita, ma tu hai almeno la mia stima, la quale ha un grande valore, perché io so ciò che è bene e male.

Di consiglieri ce ne sono milioni e offrono consigli più o meno simili o contrastanti. Alcuni pretendono perfino di poter intermediare tra l'umano e il divino. Ogni essere umano è allo stesso tempo consigliato e consigliere. Ognuno sceglie i suoi consiglieri con un semplice criterio: preferisce quelli che lo fanno sentire più a suo agio, che lo assolvono, lo lusingano, gli promettono più beni, piaceri, sicurezze, protezioni e alleanze e maggiormente lo attraggono con la bellezza delle loro parole e delle forme con cui si accompagnano.

Nessuno cerca la verità, perché essa non è, in sé, fonte di piacere, né di ricchezza, né di sicurezza. D'altra parte la verità può essere spaventosa per chi la concepisce e chi la ode, e può costituire una minaccia per l'ordine costituito, Infatti tantissime persone sono state punite, anche con la morte, per aver detto o soltanto cercato la verità, per aver messo in dubbio una dubbia verità.

Quello che in verità gli umani cercano è una verità di comodo, che giustifichi il loro comportamento, li deresponsabilizzi, li rassicuri e soprattutto li metta al riparo da punizioni o emarginazioni da parte della comunità. La verità che cercano è, insomma, una confortante via di fuga dalla verità.

Ne risulta un mondo di menzogne, distorsioni, negazioni e censure della realtà, di cui ogni essere umano è autore e vittima. L'uomo è un animale mistificatore, l'unico che inganna perfino se stesso.

Secondo voi, perché spesso spiritualisti e materialisti si snobbano o si disprezzano reciprocamente? Che male fanno gli spiritualisti ai materialisti se i primi si limitano a credere che dopo la morte risusciteranno e saranno immortali e premiati con un soggiorno eterno in paradiso? Ovviamente nessuno. E che male fanno i materialisti agli spiritualisti se i primi si limitano a pensare che dopo la loro morte nulla resterà di loro se non degli atomi che si ricombineranno in altri modi? Ovviamente nessuno. E allora come spiegare l’ostilità tra le due categorie di persone? Mi sono venute in mente tre ipotesi di risposta, che possono essere mutuamente esclusive o sommabili. La prima ipotesi è che i membri di ciascuna categoria presumono di essere stati precedentemente snobbati o disprezzati da quelli dell’altra. In altre parole le due categorie si snobbano o si disprezzano reciprocamente per una sorta di reazione difensiva, in quanto attribuiscono all'altra il primo atteggiamento sprezzante. La seconda ipotesi è più complessa ma forse più convincente. Io suppongo infatti che il motivo dell'ostilità sia logico-razionale, sistemico, competitivo e inconscio, e cercherò di spiegarlo con un esempio. Prendiamo due persone A e B, che la pensano in modo opposto in tema di finitudine e di spiritualità. In A avviene questo “ragionamento inconscio”: se B avesse ragione e io torto, allora B sarebbe superiore a me intellettualmente e perciò B sarebbe titolato a occupare posti più alti rispetto al mio nella gerarchia della comunità. Questa prospettiva è sgradita ad A, che perciò si sforzerà di dimostrare di aver ragione e che B ha torto, per dedurre da ciò una propria supremazia intellettuale. Un ragionamento inconscio analogo a parti invertite avviene in B. Insomma ipotizzo che si tratti di una questione di competizione per "meritare" i posti più alti, più prestigiosi e di maggior potere nella gerarchia formale o informale della comunità. Una terza ipotesi, ispirata dalla lettura di “Massa e potere” di Elias Canetti, è che i due gruppi rivali vedono ciascuno nell’altro un pericolo per la conservazione e l’integrità del proprio gruppo sociale (caratterizzato da una certa credenza e fondato su di essa), col rischio di restare orfani del gruppo stesso, isolati socialmente, e di frustrare in tal modo il proprio bisogno di appartenenza sociale. Che ne dite di queste mie ipotesi?  

L'uomo ha un profondo senso delle gerarchie e cerca continuamente, consciamente e/o inconsciamente, di occupare le posizioni più alte possibili in varie scale di confronto sociale tra cui: forza, intelligenza, sapienza, capacità, coerenza, affidabilità, fedeltà, dedizione, sottomissione, bontà, bellezza, salute, ricchezza, importanza, potere, influenza, libertà, responsabilità, innocenza, gentilezza, onestà, sincerità, conformità, normalità, disinteresse, umiltà ecc. Si tratta di motivazioni la cui logica è finalizzata ad ottenere meriti, riconoscimenti, privilegi, rispetto e i conseguenti vantaggi nelle interazioni sociali. Ognuno cerca dunque di essere superiore a qualcuno in qualche qualità o virtù, per quanto gli sia possibile.

Penso che la maggior parte della gente non sia d'accordo con quanto ho asserito, e neghi di avere motivazioni tese a superare il prossimo in alcun campo. Ciò è dovuto soprattutto alla cultura religiosa ed ad una certa etica che ci insegna il valore dell'umiltà e dell'uguaglianza, censurando l'egoismo, la vanità, la competizione e la ricerca del potere. Il paradosso religioso riguardo alle gerarchie extra-religiose è ben espresso dal motto evangelico "gli ultimi saranno i primi". In termini batesoniani si tratta di un "doppio vincolo" e come tale è una possibile causa di schizofrenia. In termini psicoanalitici si tratta della rimozione di un istinto dalla coscienza, sotto la guardia del super-io, istinto che tuttavia continua ad agire a livello inconscio in forme sublimate, mascherate, dissimulate.

Intrappolato in varie forme di competizione più o meno di "destra" o di "sinistra", ognuno vorrebbe far prevalere la gerarchia in cui ha la migliore posizione. Così, per il bello è onorevole essere belli, per il buono essere buoni, per il forte essere forti, per l'intelligente essere intelligenti, per il sapiente essere sapienti, per il saggio essere saggi, per l'umile essere umili, per il malato essere malati, per il sano essere sani, per il povero essere poveri, per il ricco essere ricchi, per il libero essere liberi, per lo schiavo essere schiavi, per il fedele esser fedeli, per l'egoista essere egoisti, per l'altruista essere altruisti, per il conformista essere normali ecc. ecc.

In questo modo l'uomo fa di necessità virtù.

Il motivo inconscio per cui ho scritto questo articolo rientra molto probabilmente nella logica di cui sopra, nel senso che io starei cercando con esso di affermare la mia superiorità filosofica e psicologica. Tuttavia la mia motivazione cosciente è quella di far riflettere i miei lettori sul fatto che la competizione nascosta, mascherata, contraddittoria è una delle principali cause delle miserie dell'umanità. La società sarebbe migliore se gli umani ammettessero di competere in varie gerarchie e lo facessero apertamente e lealmente, nel rispetto di regole condivise.

Prendiamo due persone A e B che hanno opinioni contrastanti su una certa questione, per esempio se per il bene comune sia più utile la politica X o la Y, oppure se la causa di un inconveniente Z sia V o W, oppure se ciò che afferma il filosofo H sia vero o falso ecc. Avere opinioni contrastanti può avere conseguenze drammatiche e, in casi estremi, tragiche. Perché le opinioni di A su una certa questione non solo qualificano A agli occhi di B, ma implicano un giudizio di A nei confronti delle opinioni di B, e di B nei confronti delle opinioni di A, in quanto coerenti o contrastanti con quelle dell’interlocutore, e quando si giudica l’opinione di qualcuno si giudica al tempo il soggetto che la possiede e la manifesta. In altre parole, esprimere un’opinione comporta sempre e comunque, implicitamente, un giudizio negativo nei riguardi delle persone che non la condividono, e positivo nei riguardi di coloro che la condividono. E’ questo il motivo per cui esprimere opinioni suscita ostilità nei propri confronti da parte di coloro che non sono d’accordo con esse. Infatti questi si sentono “offesi” dall’implicito giudizio negativo nei propri confronti da parte di coloro che esprimono opinioni incompatibili con le loro. Questa dinamica mentale (più o meno conscia o inconscia) si regge sulla logica per cui una persona che sbaglia si qualifica come “una persona che sbaglia”, cioè come una che, avendo sbagliato una volta, e non riconoscendo il proprio errore, probabilmente continuerà a sbagliare, quindi è inaffidabile, e di conseguenza meno meritevole di un’altra nella gerarchia sociale. In altre parole, più una persona sbaglia, minore è la sua “dignità sociale” o autorevolezza. Di conseguenza, dire ad una persona “hai sbagliato” equivale dunque a dirgli che la sua dignità sociale è più bassa rispetto a quella di chi non ha fatto lo stesso errore, almeno per quanto riguarda il campo (intellettuale, morale, economico ecc.) in cui è stato commesso il presunto errore. Per l’uomo avere ragione è importante perché ne va (consciamente o inconsciamente) della sua dignità sociale (o reputazione) e della sua posizione gerarchica (intellettuale, morale, economica ecc.) nella società. Questo spiega l’aggressività che spesso erompe come reazione alla percezione di opinioni che non si condividono. Per quanto una persona si sforzi di inibire le proprie reazioni aggressive nei confronti di chi esprime opinioni contrarie alle proprie, difficilmente riuscirà a nascondere la sua antipatia e il disprezzo verso il suo oppositore, e la conseguente antipatia e il conseguente disprezzo di ritorno. L’unico modo per evitare questa escalation di odio (che Gregory Bateson chiama “schismogenesi”) sarebbe quello di non avere opinioni, oppure di non lasciarle trasparire, cosa che però ha ovvie controindicazioni sia per il benessere individuale che per quello sociale.

A mio parere, nella relazione e nelle interazioni tra due persone, ognuna di esse valuta automaticamente e inconsciamente il rapporto tra il proprio status sociale e quello dell’interlocutore.

Per status sociale intendo un insieme di qualità che includono forza fisica, bellezza, eleganza, intelligenza, esperienza, astuzia, conoscenze, coraggio, moralità, reputazione sociale, abilità varie, risorse informative, materiali, economiche, sociali ecc.

Tutte queste qualità e risorse entrano in gioco nel determinare le posizioni delle persone in una scala gerarchica mentale istintiva di superiorità-inferiorità “generale”. Tale scala costituisce normalmente e implicitamente la base per la distribuzione dei poteri decisionali e dei ruoli sociali in tutte le relazioni umane (coppia, famiglia, gruppi, comunità, istituzioni civili, politiche e religiose, imprese, ecc.).

La valutazione dello status sociale proprio e altrui non avviene una volta per tutte, ma si rinnova continuamente attraverso le interazioni sociali.

Ognuno valuta, usando criteri personali (basati sulle proprie esperienze) e norme culturali, non solo la propria posizione e quella dell’interlocutore nella gerarchia di cui sopra, ma anche, intuitivamente, le valutazioni e autovalutazioni fatte dall'interlocutore.

In altre parole, nella relazione tra due persone A e B, la persona A valuta:

lo status di A (“come io valuto me stesso”)
lo status di B (“come io valuto il mio interlocutore”)
lo status di B visto da B (“come credo che il mio interlocutore si valuti”)
lo status di A visto da B (“come credo il mio interlocutore mi valuti”)

Ogni persona fa dunque quattro valutazioni che possono essere più o meno coerenti o contrastanti con quelle corrispondenti fatte dall'interlocutore. Vale a dire, per esempio, che A può valutare il proprio status ad una certa altezza della gerarchia, che a parere di B è sopravvalutata o sottovalutata. Oppure A può valutare lo status di B ad una certa altezza che a parere di B è sopravvalutata o sottovalutata.

Se le quattro valutazioni da parte di A sono coerenti con le quattro corrispondenti da parte di B, cioè c’è accordo sulle misure valutate, allora il rapporto tra A e B è “pacifico” sia se A e B si considerano ad uno stesso livello gerarchico, sia se si considerano a due livelli diversi (per cui uno è unanimemente riconosciuto come più “autorevole” o “superiore” rispetto all'altro).

I problemi nascono, ovviamente, quando le valutazioni da parte di A non sono coerenti con quelle da parte di B. Le differenze di valutazione di status possono dar luogo ad antipatie, ostilità e competizioni più o meno aperte e leali.

Nella nostra cultura, dove le falsità e le mistificazioni sono la regola, i meccanismi sopra descritti sono considerati “politicamente scorretti”, negati o rimossi nell’inconscio dalla maggior parte della gente. Tuttavia io credo che siano praticati normalmente, anche se in forma nascosta o mistificata.

Ogni essere umano ha nel suo inconscio una comunità ideale (che chiameremo "comunità elettiva") a cui ha bisogno di appartenere (in una posizione onorevole) e da cui teme di essere escluso. E’ una comunità in cui valgono particolari valori etici ed estetici, gerarchie, diritti, doveri, obblighi, divieti, riconosciuti, ricercati e condivisi dai suoi membri. Infatti i valori professati da un individuo corrispondono a quelli della propria comunità elettiva, nel senso che sono riconosciuti, “spendibili” o scambiabili in essa.

La comunità elettiva può corrispondere ad una comunità reale, cioè un gruppo di persone conosciute particolari, oppure può essere immaginaria. In tal caso l’individuo la cerca o tenta di crearla. Può anche succedere che un individuo abbia più di una comunità elettiva, ognuna con valori diversi. In tal caso, per l'individuo, è come avere denaro in diverse valute, ciascuna spendibile in una comunità diversa.

Se un individuo si sente parte di più di una comunità elettiva e vi sono incompatibilità o conflitti tra i valori delle rispettive comunità, in esso possono prodursi rinunce, frustrazioni, inibizioni e disturbi psichici (dalla depressione, agli attacchi di panico, alla schizofrenia) e psicosomatici. Data la forza insopprimibile del bisogno umano di appartenenza, un individuo che non si sente parte di alcuna comunità elettiva (né reale né immaginaria) è normalmente infelice e tende a comportarsi in modo asociale e a sviluppare nevrosi e psicosi.

Ogni individuo viene percepito (e percepisce se stesso) come più o meno "rappresentativo" di una comunità, e in tal senso al suo giudizio viene attribuita una importanza più o meno grande. La mancanza di autostima può essere dunque dovuta ad un senso di non-rappresentatività o non appartenenza comunitaria.

I conflitti tra individui vengono percepiti come conflitti tra le diverse comunità (o concezioni di comunità) che essi rappresentano oppure come competizioni per posizioni gerarchiche ambite nell'ambito della comunità. Parliamo dunque di conflitti esterni o interni alla comunità.

A volte un individuo sente il bisogno di ribellarsi ad una comunità di cui ha fatto o fa ancora parte, ma per farlo ha bisogno di alleati, cioè di una comunità alternativa che lo sopporti nella rivolta.

Ogni essere umano può essere "collocato" psicologicamente in una o più comunità elettive in una certa posizione gerarchica e in un certo stato di grazia. Quest'ultimo rappresenta il livello di accettazione e approvazione di cui gode da parte dei comembri della comunità di riferimento rispetto alla posizione gerarchica assunta.

Ogni collocazione può essere più o meno soddisfacente per l'interessato. Quando è insoddisfacente oltre un certo limite, il soggetto può avere disturbi psichici o considerare  l'eventuale migrazione ad un'altra comunità potenzialmente più soddisfacente.

Aspetti formali

L'appartenenza ad una particolare comunità elettiva deve essere confermata periodicamente attraverso la conformazione a forme, e la celebrazione di rituali, specifici della comunità stessa, come la partecipazione a feste e riti,  abbigliamenti, arredamenti, linguaggi, cibi, attività ecc. tipici della comunità stessa. In altre parole, far parte di una comunità significa far parte delle sue forme caratteristiche.

Ognuno, consciamente o inconsciamente, valuta ogni altro e si sente valutato da ogni altro secondo certe gerarchie (intelletto, etica, estetica, politica, forza fisica, competenza in certe funzioni, conoscenza in certi campi, abilità in certe attività ecc.). Ogni valutazione reciproca discordante tra due persone può dar luogo ad un conflitto interpersonale per cui ciascuno cerca di indurre l’altro a modificare le valutazioni di se stesso e dell'altro, in modo da renderle coerenti con le proprie. Chi si sente sottovalutato da un altro, tende automaticamente a pensare che sia l'altro a sopravvalutarsi (dato che il primo presume di essere stato valutato dal secondo in modo improprio). Se uno si sente sottovalutato dall’altro, e/o ritiene che l’altro si sopravvaluti, cercherà di dimostrargli che ha torto, che è in errore, che ha fatto qualcosa di sbagliato (vale a dire, in altre parole, che vale meno di quanto pensi). I tentativi di correzione al ribasso della presunta sopravvalutazione vengono solitamente percepiti, da chi li subisce, come umiliazioni, e chi si sente umiliato reagisce solitamente cercando a sua volta di umiliare l'umiliante. Tale dinamica costituisce un circolo vizioso, con un’escalation potenzialmente illimitata. Se il conflitto si dimostra insanabile e non intervengono fattori di moderazione o di inibizione, ne consegue un’ostilità tra i contendenti che può sfociare nel disprezzo reciproco, nell’offesa, nella violenza e nell’allontanamento unilaterale o bilaterale. Allo scopo di evitare simili spiacevoli esiti, molti si astengono dal valutare gli altri e dall’autovalutazione, e considerano il giudizio e la critica deleteri, al punto da giudicare male chi giudica, per il solo fatto che esprime giudizi senza avere particolari titoli pubblici per farlo. Questa fuga dalla valutazione, dal giudizio, dalla critica, nuoce al progresso civile e morale, in quanto ci può essere progresso civile e morale solo criticando i pensieri e i comportamenti erronei propri e altrui. Pertanto, in caso di divergenze di opinioni con qualcuno, dovremmo cercare di criticare solo le idee che riteniamo errate e non la persona che le esprime, e non dovremmo sentirci svalutati come persone (a meno che l’altro non sia esplicito in tal senso). L’astensione dalla valutazione “ad personam” è tuttavia alquanto difficile allorché si cerca di analizzare i motivi per cui l’interlocutore pensa, o si comporta, in modo erroneo, dal momento che tali motivi sono spesso psicologici, più che logici, vale a dire che investono la personalità (e quindi la persona) del soggetto. Infatti un ragionamento può comportare lacune e salti logici (spesso associati a paure e/o a repulsioni) dovuti a particolari strutture cognitive ed emotive dell’inconscio, di cui il soggetto è raramente consapevole. Dovremmo allora limitarci a dire che certe idee o certi comportamenti del nostro interlocutore sono a nostro avviso erronei, senza avanzare ipotesi o spiegazioni “psicologiche” circa i motivi degli errori. Così facendo eviteremo tanti conflitti, ma non contribuiremmo a far luce sulle cause psicologiche dei mali della società.

Ogni umano ha una sua visione del mondo. Una visione del mondo è costituita da definizioni e valutazioni di enti (concetti, oggetti, persone, idee, comportamenti ecc.). Le valutazioni (dette anche giudizi) sono di vari tipi: logico (vero/falso), etico (buono/cattivo), estetico (bello/brutto), pragmatico (utile/inutile), dimensionale (grande/piccolo, importante/non importante) ecc. Le valutazioni possono riguardare qualsiasi ente, compresi gli esseri umani e i loro comportamenti (sia in quanto individui unici sia in quanto categorie di persone). Ogni essere umano, anche se non lo ammette, giudica (consciamente o inconsciamente, direttamente o indirettamente) ogni altro essere umano e se stesso. Il giudizio è cognitivo (giusto/sbagliato) ed emotivo (attrazione/repulsione), e quello emotivo precede e influenza quello cognitivo nel senso che tendiamo a considerare giusto ciò che ci attrae e sbagliato ciò che ci repelle. Il giudizio dell'uomo sull'uomo è problematico in quanto può avere conseguenze indesiderate e nefaste. Infatti esso può essere offensivo o percepito come tale dagli interessati, compreso il soggetto che giudica se stesso o che si sente giudicato dagli altri. La conseguenza di un giudizio sfavorevole può essere una reazione difensiva e/o aggressiva (rabbia e desiderio di rivalsa), depressiva (senso di colpa o di inferiorità) o evitante, cioè di allontanamento o fuga. Per evitare gli effetti socialmente distruttivi dei giudizi sfavorevoli dell'uomo sull'uomo, i meccanismi di difesa della psiche nel soggetto giudicabile adottano varie strategie. Una di esse consiste nel dividere gli esseri umani in classi (gruppi, categorie o comunità) e giudicare favorevolmente quelli che appartengono a certe classi (a cui appartiene anche il soggetto) e sfavorevolmente gli altri, in modo che vi sia coesione, pace e solidarietà nella classe di appartenenza e un’eventuale ostilità solo verso le altre. Un'altra strategia consiste nell'astensione dal giudizio, tranne nei casi di comportamento estremamente antisociale o nei casi percepiti dal soggetto come dannosi per sé stesso. Entrambe le strategie comportano bias cognitivi, pregiudizi e distorsioni della realtà, ovvero autoinganni e "doppi vincoli", con forme più o meno gravi di schizofrenia. Infatti è impossibile non giudicare, così come è impossibile non comunicare e non pensare, e affermare di non giudicare è sempre falso e illusorio. Un giudizio cognitivo-emotivo (conscio o inconscio) c'è sempre e può essere più o meno positivo (cioè più o meno favorevole al giudicato) o neutro, proprio come in un tribunale. Perfino lo stesso atto di giudicare può essere oggetto di giudizio, tanto che chi giudica esplicitamente e francamente passa facilmente per arrogante. Il fatto è che il comportamento di ogni essere umano può essere più o meno utile o nocivo agli altri, e non chiedersi quanto lo sia significa non voler vedere la realtà perfino quando ci riguarda direttamente o indirettamente. Rifiutarsi di giudicare è assurdo, sciocco e irresponsabile come non voler vedere il male che qualcuno sta facendo a qualcun altro. In realtà, coloro che si negano il diritto di giudicare ignorano il male che gli altri fanno al prossimo, tranne quando ne sono essi stessi vittime. Il risultato è una degradazione morale del vivere civile accompagnata da egoismo e indifferenza per le sofferenze altrui. Nelle conversazioni tra amici o conoscenti, per evitare l'insorgere di antipatie e di ostilità, e per non essere esclusi dai gruppi e dalle comunità, c'è l'abitudine di non esprimere giudizi sul comportamento umano, sia riguardo ai presenti, sia in generale, dato che chiunque può sentirsi implicato o alluso in un giudizio generale sfavorevole. Sono infatti ammessi solo giudizi negativi verso classi e tipi di persone a cui sicuramente nessuno dei presenti appartiene. Questo è ciò che viene comunemente chiamato "tatto", “etichetta”, "buone maniere", e "politicamente corretto". Tra i giudizi sfavorevoli diretti o indiretti, c'è quello che riguarda la visione del mondo e la capacità critica della persona giudicata. Difficilmente, infatti, un essere umano tollera che qualcuno metta in discussione, direttamente o indirettamente la propria visione del mondo e la propria capacità di giudizio, in quanto esse costituiscono le fondamenta della propria personalità e moralità, ovvero della propria dignità sociale. Ci sono persone capaci di mettersi in discussione, ma se a mettere in discussione la nostra personalità è qualcun altro, allora si scatena il loro meccanismo di difesa in forma di attacco o fuga rispetto al giudicante, normalmente percepito come aggressore e offensore, sia a livello emotivo che cognitivo.

Giudicare una cosa (concreta o astratta) o una persona significa decidere se essa sia (in una certa misura) vera o falsa, buona o cattiva, bella o brutta, utile o inutile, efficace o inefficace, potente o impotente, ecc. A tal proposito possiamo distinguere diversi tipi di giudizio, come i seguenti:
  • giudizio logico (vero/falso)
  • giudizio etico (buono/cattivo)
  • giudizio estetico (bello/brutto)
  • giudizio utilitaristico (utile/inutile)
  • giudizio pragmatico (efficace/inefficace)
  • giudizio politico (potente/impotente)
  • ecc.
Il giudicare comporta anche l’opzione di decidere se vi sono elementi sufficienti e sufficientemente chiari per poter esprimere un giudizio, o altrimenti, se sia opportuno sospendere il giudizio stesso. Inoltre, un giudizio può anche risultare neutro (cioè né vero, né falso, né buono, né cattivo, ecc.) o irrilevante. Giudicare o valutare (verbi che possiamo considerare sinonimi) non comportano necessariamente l’espressione o dichiarazione del giudizio(alla persona oggetto del giudizio, o a terzi), né la condanna ad una punizione o un rimprovero (in caso di giudizio sfavorevole), né una premiazione o una lode (in caso di giudizio favorevole). In altre parole, l'opportunità di esprimere un giudizio morale è indipendente dall'opportunità di giudicare. Ogni essere umano è allo stesso tempo giudice e giudicato, nel senso che gli umani si giudicano reciprocamente (e giudicano anche se stessi) consciamente o inconsciamente, e decidono come comportarsi l’uno con l’altro in base a tali giudizi. Essere oggetto di un giudizio sfavorevole da parte di altri (come falso, cattivo, brutto, inutile, inefficace, impotente, ecc.) è terribile in quanto può comportare l’emarginazione sociale del giudicato. In tal senso, il compito principale dell’inconscio è quello di imporre alla coscienza del soggetto comportamenti tali da ottenere dagli altri (cioè dalle persone più importanti per sé) i giudizi più favorevoli possibile. I giudizi possono pertanto costituire armi (offensive e/o difensive), incentivi e strumenti nella competizione e nella cooperazione tra umani. Perciò, a mio avviso, abbiamo tutti, consciamente o inconsciamente, paura del giudizio sfavorevole altrui, e cerchiamo di evitare di subire un giudizio, a meno che non siamo fiduciosi che esso sia a noi favorevole. Un altro aspetto problematico del giudicare è il confronto tra giudizi e le gerarchie basate sulle differenze dei giudizi sulle persone. Infatti, proprio perché i giudizi non sono normalmente binari (esempio: buono o cattivo) ma quantitativi (esempio: più o meno buono e/o cattivo) nel giudicare due persone una di esse risulterà normalmente migliore o peggiore dell’altra in una certa categoria di confronto, dato che è improbabile che il giudizio sia esattamente uguale, in alcuna delle diverse categorie. In altre parole, la competizione e le gerarchie tra umani sono basate sul giudizio su chi sia più “valevole”, “valido” o "valoroso" (cioè più vero, buono, bello, utile, efficace, potente, ecc.) dell’altro. Il giudizio comparativo è importante non solo nella competizione, ma anche nella cooperazione, nella selezione e nell’imitazione, ovvero in tutti i processi di interazione sociale. Infatti, in una libera cooperazione, ognuno è libero di scegliere i partner “migliori” che può sperare di ottenere, ed esercita normalmente tale libertà. Anche nei processi di imitazione tendiamo a imitare i modelli che giudichiamo “migliori”. Un altro problema legato al giudicare è quello della reciprocità del giudizio, nel senso che se una persona A giudica sfavorevolmente una persona B, e B lo sa, B tende a giudicare sfavorevolmente la persona A. Analogamente, se una persona A giudica favorevolmente una persona B, e B lo sa, B tende a giudicare favorevolmente la persona A. Questo fenomeno può dar luogo all’inibizione dei giudizi sfavorevoli e alla promozione di quelli favorevoli, come strategia, conscia o inconscia, per facilitare la cooperazione sociale e la reciproca accettazione. Da quanto sopra, risulta evidente che il giudicare è fondamentale in tutti i rapporti sociali, e per questo dovrebbe essere studiato con molta cura sia in filosofia che in psicologia. Tuttavia, per la maggior parte della gente il termine “giudicare” ha una connotazione negativa, come di qualcosa di politicamente scorretto, di divisivo, da evitare il più possibile, con la conseguenza che quasi tutti giudicano inconsciamente, e negano di farlo. Una delle conseguenze più pericolose di questo stato di cose nella nostra civiltà attuale è il declino della morale, dovuto anche al declino delle religioni, che hanno sempre avuto il monopolio della morale stessa. Allo stesso tempo viene glorificata una libertà senza limiti, che è soprattutto libertà dai giudizi morali. Per concludere, la gente, con poche eccezioni, non ama parlare di morale ed evita di parlarne. Ciò sta rendendo la nostra civiltà sempre più amorale, dato che esercitare la morale consiste nel giudicare se un certo comportamento sia più o meno buono o cattivo.

La difficoltà di comunicare in modo creativo da parte di quasi tutti gli esseri umani

Gli esseri umani mi sembrano fortemente limitati nelle loro capacità di comunicazione con persone al di fuori della loro cerchia di familiari, amici, colleghi, clienti e fornitori. Ed anche all'interno di tale cerchia, la comunicazione mi sembra molto limitata sia nei tipi di temi trattati, sia nella profondità del trattamento.

Esistono modi stereotipati di comunicare ai quali pochi riescono a sfuggire, e nella grande maggioranza dei casi la comunicazione obbedisce ad una serie di obblighi, divieti, paure, consuetudini che riguardano le persone con cui si può, non si può, si deve, non si deve, conviene, non conviene parlare e di cosa si può, non si può, si deve, non si deve, conviene, non conviene parlare, con tutte le combinazioni possibili (ad esempio, solo con certe persone si può parlare di certe cose).

Mi chiedo se queste limitazioni della libertà di comunicare siano dovute a scelte volontarie e consapevoli, a imposizioni più o meno esplicite da parte della cultura dominante oppure a forze involontarie più o meno consce. Quale che sia la causa o l'insieme di cause di tali limitazioni, io credo che esse abbiano un ruolo importante nei mali dell'umanità e nel ritardo del progresso civile.

La comunicazione tra due esseri umani ha generalmente uno o più scopi che possono essere di tipo:
  • rituale
  • collaborativo
  • commerciale
  • ludico
  • sessuale
  • violento
  • creativo
La comunicazione rituale serve ad affermare o confermare un'identità, un'appartenenza, una fedeltà, una sottomissione, una devozione, un'obbedienza, un ruolo sociale o una posizione gerarchica o funzionale nell'ambito di un sistema socioculturale comune.

La comunicazione collaborativa serve a coordinare attività produttive.

La comunicazione commerciale serve a coordinare uno scambio di beni, servizi o informazioni.

La comunicazione ludica serve a procurare stimolazione gradevole, piacere, divertimento, ilarità, allenamento fisico e mentale mediante simulazione di situazioni reali.

La comunicazione sessuale serve a stimolare o favorire l'unione sessuale a fini di piacere o di riproduzione.

La comunicazione violenta serve a imporre, attraverso minacce o lesioni, uno stato di sottomissione, sfruttamento, umiliazione, sconfitta o, nei casi estremi, a provocare l'annientamento di una persona o categoria di persone.

La comunicazione creativa serve a stimolare e facilitare, attraverso la conversazione e la discussione, la concezione di nuove idee e soluzioni utili alle persone che interloquiscono o ad altre.

Nel mondo attuale le comunicazioni rituali abbondano soprattutto in ambiti tradizionali, quelle collaborative sono abbastanza diffuse ma generalmente limitate ad ambiti aziendali, quelle commerciali sono molto diffuse (troppo, secondo me), quelle ludiche sono abbastanza diffuse tra i bambini ma poco tra gli adulti, la comunicazione sessuale è molto diffusa in forme più o meno esplicite, la comunicazione violenta è tragicamente diffusissima soprattutto in certe zone del pianeta e delle nostre città, la comunicazione creativa è molto rara.

La comunicazione creativa sembra essere oggetto di inibizione a livello di inconscio individuale e collettivo. Infatti la creatività è politicamente pericolosa perché in grado di minare le gerarchie politiche e religiose criticando le basi del loro potere. La comunicazione creativa è per definizione libera da schemi e condizionamenti, ma la libertà fa paura, come spiegato mirabilmente da E. Fromm in Fuga dalla libertà. La creatività richiede libertà e sviluppa ulteriormente la libertà stessa attraverso la concezione di nuove opzioni, compresa quella di stabilire nuove relazioni sociali al di fuori della propria cerchia. In altre parole, la creatività crea instabilità nelle relazioni sociali. La comunicazione creativa richiede e sviluppa l'intelligenza e questa è pericolosa perché tendenzialmente favorisce un ordinamento politico-sociale in cui le persone più intelligenti e creative potrebbero o dovrebbero occupare le posizioni gerarchiche più elevate, mentre sappiamo che fino ad oggi le cose hanno funzionato diversamente.

Per coltivare la creatività bisogna superare inibizioni inconsce (individuali e collettive) e trovare il coraggio di comportarsi in modo non conforme a quello imposto dalla subcultura di appartenenza, inclusa l'eventualità di rompere le relazioni con le persone a cui si è legati e che perciò cercano di scoraggiare il nostro desiderio di crescita e di libertà intellettuale e sentimentale. In altre parole, la creatività ci aiuta e ci spinge a cambiare, e perciò ad essa si oppongono (consciamente o inconsciamente) tutti quelli che non vorrebbero vederci diversi se non in modi ad essi favorevoli.

Coltivare la creatività è un'opportunità a disposizione di tutti per cambiare in meglio se stessi e il mondo. Fortunati quelli che hanno l'intelligenza e il coraggio di praticarla, anche se essa può comportare un isolamento sociale più o meno grande nei confronti di coloro che temono le sue conseguenze, destabilizzanti l'ordine sociale e mentale a cui sono abituati.

Oggi Internet dà a tutti la possibilità di comunicare con qualunque altra persona al mondo, conosciuta o sconosciuta, senza limiti di distanza e con strumenti di selezione molto sofisticati per facilitare l'incontro tra persone con caratteristiche e/o interessi affini. Ma queste enormi potenzialità vengono sfruttate ancora molto poco per i motivi detti sopra (fatta eccezione per i siti di incontri a sfondo sessuale). Spero che intorno all'obiettivo della comunicazione creativa possano nascere dei social network in grado di migliorare la situazione mediante la condivisione e la promozione di una mentalità aperta, tesa al reciproco arricchimento.

Premessa sulla costituzione dell'essere umano e della sua mente Io vedo l'essere umano come un organismo costituito da un complesso sistema di organi viventi (che io chiamo anche agenti) interconnessi e cooperanti attraverso lo scambio di sostanze chimiche, energie e informazioni. Tali scambi avvengono sia all'interno dell'organismo, sia con il mondo esterno, secondo programmi innati (cioè scritti nel codice genetico di ogni individuo) e acquisiti (come conseguenza delle particolari esperienze vissute da ciascuno). Tali scambi sono indispensabili per la vita e la riproduzione dell'Uomo. Uno degli agenti più specifici che costituiscono l'Homo Sapiens, il più recente che si è formato durante la sua evoluzione e forse il più complesso, è l'io cosciente, Esso è al tempo stesso soggetto e oggetto della consapevolezza, delle percezioni, delle emozioni. dei sentimenti, della conoscenza e della volontà. L'io cosciente corrisponde ad una piccola parte della mente, quella cosciente. Le altre parti possono essere raggruppate nel concetto di inconscio. Autogoverno L'attività fondamentale ed essenziale dell'io cosciente è l'autogoverno, cioè il governo, al livello più alto, dell'organismo di cui è parte. L'io cosciente non può esistere autonomamente in quanto la sua vita dipende totalmente da quella dell'organismo che è chiamato a governare. Ci sono infatti buoni motivi per ritenere che esso nasca con l'organismo e muoia con esso. In altre parole, direi che l'io cosciente è stato filogeneticamente prodotto dall'organismo per essere da lui governato ed ha motivo e ragione di esistere solo nella misura in cui riesce a svolgere efficacemente tale funzione. Vale a dire che l'io cosciente è al servizio dell'organismo, e non viceversa, anche se l'io cosciente è in grado di comandare alcune parti dell'organismo a cui appartiene, cioè i muscoli volontari. Governando se stesso attraverso l'io cosciente, un individuo può, entro certi limiti ed in una certa misura, governare anche gli altri e l'ambiente che lo circonda. Perciò, per poter governare il più efficacemente possibile il mondo esterno (compresi gli altri), occorre saper governare se stessi in modo efficace. I direttori motivazionali e il direttore generale L'io cosciente, che io chiamo metaforicamente direttore generale (dell'organismo), non ha altro ruolo, funzione e fine che quello di trovare soluzioni per soddisfare il più possibile le esigenze di cinque agenti mentali inconsci (vedi nota) che presiedono ai bisogni primari e secondari (cioè innati e acquisiti) dell'individuo e alle strategie per la loro soddisfazione. Segue la lista degli agenti, che io chiamo metaforicamente direttori motivazionali, e delle loro aree di competenza e responsabilità:
  1. direttore della salute: salute fisica e mentale, alimentazione, evitamento del dolore, protezione, prevenzione, terapia, medicina, ambiente, inquinamento, clima, sopravvivenza, immortalità, spiritualità, DNA, emotività, mappa emotiva, empatia ecc.;
  2. direttore della comunità: interazioni, appartenenze, integrazione sociale, unioni, associazioni, alleanze, partecipazione, condivisione, famiglia, matrimonio, reputazione, solidarietà. cooperazione, amicizie, inimicizie, conformismo, ritualità, tradizioni, convenzioni, negoziazioni, gerarchie, giochi, puericultura, educazione, religione, etica, responsabilità, colpa, vergogna, onore, disonore, patria, lavoro, pace, guerra contro altre comunità ecc.;
  3. direttore del potere: libertà, competitività, creatività, immaginazione, conoscenze, abilità, intelligenza, sicurezza, aggressività, difesa, offesa, risorse materiali, economiche e mediali, sorveglianza e controllo degli altri, potere politico ed economico, sfruttamento, asservimento, privacy, status, successo, invidia, gelosia, dominio, possesso, guerra, armi ecc.;
  4. direttore dell'eros; sessualità, rapporti sessuali, innamoramento, amore erotico, erotismo, libido, intimità, riproduzione, pornografia, prostituzione, *filia ecc.;
  5. direttore della bellezza: fascino, incanto, ordine, armonia, arte, fotografia, musica, poesia, letteratura, romanzi, abbigliamento, make-up, profumi, arredamento, architettura, pulizia, purezza, estetica, gusto, umorismo, fantasia, chiarezza, semplicità, forma, struttura, affinità, continuità, novità, divertimento ecc..
Nota: questo raggruppamento dei bisogni umani in cinque categorie presiedute da "direttori" non ha un fondamento scientifico, ma costituisce una semplificazione di comodo per facilitare la comprensione dell'attività dell'io cosciente al fine di migliorarla. In realtà credo che il numero di agenti motivazionali sia molto maggiore e che forse essi non siano raggruppati, se non nella rappresentazione mentale che di essi una persona può avere. Compiti, attività e strumenti del direttore generale I direttori motivazionali sono connessi gli uni con gli altri e possono avere tendenze e comportamenti reciprocamente sinergici o conflittuali. Nei casi peggiori di conflitto, un direttore motivazionale può ridimensionarne, neutralizzarne o sopprimerne definitivamente un altro, con conseguenze più o meno gravi per la salute mentale e fisica dell'individuo, se ciò porta alla frustrazione prolungata o alla rimozione (in senso psicoanalitico) di un bisogno primario. Dato che le esigenze dei direttori motivazionali sono spesso conflittuali, il compito principale del direttore generale è quello di risolvere i conflitti mediante compromessi e cercare di conciliare, armonizzare, censurare (quando occorre), promuovere e favorire le diverse esigenze, Tra l'altro egli dovrebbe valutare la relativa importanza, urgenza e validità dei vari bisogni e riconoscere quelli morbosi o superflui per censurarli quando possono nuocere alla soddisfazione di altri bisogni più sani ed importanti. Per svolgere efficacemente il suo compito, il direttore generale deve saper ascoltare le esigenze dei direttori motivazionali, le quali non vengono espresse in modo esplicito ma attraverso emozioni, sentimenti e segnali più o meno intensi, tra cui attrazioni, repulsioni, piaceri, dolori, ansie, paure ecc. Inoltre deve avere una buona conoscenza della natura umana (propria e altrui) e delle situazioni correnti. Il direttore generale può sviluppare le necessarie capacità e conoscenze attraverso vari mezzi come: conoscenza delle realtà altrui (esperienze, conoscenze, opinioni, sentimenti, gusti, mappe emotive, geni e memi), informazioni, percezioni, monitoraggio, ascolto, misure, dati oggettivi, statistiche, scienze naturali e sociali, ecologia, storia, logica, analisi, sintesi, studio, riflessione, introspezione, meditazione, pianificazione, organizzazione, amministrazione ecc. Retribuzione del direttore generale Il direttore generale viene premiato o punito in modo proporzionale al successo o insuccesso del suo operato, mediante il piacere e il dolore che verrà generato come conseguenza della soddisfazione o insoddisfazione dei vari bisogni dell'organismo. Vedi anche Organigramma del mio autogoverno, e I miei direttori e l'interpretazione della loro volontà.

Il comportamento umano (di cui fa parte anche il pensiero) è determinato da motivazioni per lo più inconsce. Tra queste, alcune sono simili a quelle di altri animali, altre sono tipicamente ed esclusivamente umane.  Data l'interdipendenza degli esseri umani, le motivazioni tipicamente umane sono incentrate sul bisogno di cooperazione sociale e includono ogni strategia e tattica che possa facilitare la cooperazione stessa. La cooperazione sociale ha un costo in termini di obblighi e di limitazioni della libertà individuale in quanto nessun umano concede la sua cooperazione “gratuitamente”. Infatti ognuno esige, in cambio della propria cooperazione, un adeguato bene o un’adeguata cooperazione, ovvero certi comportamenti e certe limitazioni di comportamento da parte di coloro con con cui coopera. Dato il bisogno (e/o desiderio) umano di libertà, la motivazione umana fondamentale consiste nell’ottenere la massima cooperazione col minimo “costo”, cioè mantenendo la massima libertà (compresa quella di interrompere la cooperazione, o di modificarne i termini, quando si vuole)  riducendo al minimo i necessari impegni per quanto possibile. La cooperazione sociale è regolata da leggi (scritte e non scritte) stabilite da tradizioni e da autorità comunemente riconosciute, leggi che devono essere accettate e rispettate come condizione per poter cooperare. Tali leggi, diverse in ogni gruppo sociale, stabiliscono forme, norme, valori, obblighi e libertà nelle relazioni cooperative. In quasi tutte le società democratiche, tra le libertà riconosciute c’è quella di scegliere i propri partner nei vari ambiti. In altre parole, ognuno può scegliere con chi cooperare e con chi non cooperare. Il fatto che nessuno sia obbligato a cooperare con qualcuno (cioè che la cooperazione sia un diritto ma non un dovere) fa sì che la cooperazione non sia mai garantita (tranne nell’infanzia, da parte dei genitori verso i figli), ma sia soggetta all’”attrattività” della propria persona. In altre parole, quanto più una persona è “attraente” in un certo ambito, tanto più facilmente trova persone interessate a cooperare con essa in quell’ambito. La probabilità di trovare persone disponibili a cooperare con se stessi è anche determinata dalle risorse di cui un individuo può disporre per “comprare” o imporre la cooperazione stessa. In altre parole, tale probabilità è legata al “potere” politico ed economico di cui la persona dispone. Per quanto detto sopra, possiamo ipotizzare la presenza, nella logica dell’inconscio, di due tipi di gerarchie sociali, che io chiamo “gerarchie capacitive” e “gerarchie attrattive”. Per “gerarchia capacitiva” intendo una scala comparativa della capacità (cioè del potere) di imporre ad altri regole di cooperazione (obblighi e libertà) a cui sottostare, oppure di “comprare” una certa cooperazione. Per “gerarchia attrattiva” intendo una scala comparativa dell’attrattività (nel senso di desiderabilità) dei membri di una certa comunità in un certo ambito, ovvero della probabilità di essere scelti come partner di cooperazione nell’ambito considerato. I principali ambiti delle gerarchie capacitive sono: politica, economia, finanza, scienze, facoltà accademiche, media, istituzioni sociali, organizzazioni, imprese ecc. I principali ambiti delle gerarchie attrattive sono: bellezza della persona e dei suoi averi, salute, intelligenza, cultura, competenze tecniche, capacità varie, moralità, conformità ai costumi sociali e alle mode, ecc. Tuttavia, una posizione più alta in una gerarchia capacitiva rende una persona generalmente anche più “attraente” per una cooperazione. Io suppongo che nell’inconscio di ogni umano vi sia un meccanismo omeostatico che in ogni momento misura la posizione (o "status") della persona nelle varie gerarchie capacitive e attrattive, e attiva comportamenti tesi ad evitare decrementi e a favorire incrementi degli status stessi. Infatti, quanto più lo status è basso in quante più gerarchie, tanto più si perde potere, autorevolezza, autorità, competitività, attrattività, dignità e appartenenza sociale, ovvero tanto più ci si avvicina all’emarginazione sociale, all’isolamento e alla “morte civile”. Suppongo che così l'inconscio "ragioni" e "funzioni". Ovviamente, la misura degli status propri e di quelli altrui (che vengono continuamente confrontati a livello inconscio) è sempre soggettiva e deve fare i conti con le reciproche misure fatte dagli altri ed espresse in modi più o meno espliciti e più o meno pubblici. Quando le valutazioni reciproche differiscono in senso sfavorevole per noi (nel senso che la stima che l'altro ha per noi è inferiore alla nostra autostima) può nascere in noi un'antipatia, una rabbia e un senso di ingiustizia verso l'altro. Tali reazioni emotive possono dar luogo, da parte nostra, a comportamenti aggressivi tesi ad imporre all'altro le nostre valutazioni, ovvero ad umiliarlo, a fargli capire che sbaglia, che ha certi difetti, che vale meno di quanto crede, e che, di conseguenza, merita uno status (in un certo ambito) più basso di quello che ritiene di avere, e comunque più basso rispetto al nostro. Ogni società è caratterizzata da un certo grado di competitività, nel senso che alcune sono più competitive di altre. Comunque in ogni società c’è una continua, "normale", competizione per i ranghi più alti possibili nelle varie gerarchie, specialmente quelle in cui uno si sente più competitivo, mentre si rinuncia normalmente a competere nelle gerarchie in cui si sa di avere poche probabilità di ottenere buone posizioni. In tale quadro ci sono persone che assumono (o a cui viene conferito) il ruolo di facilitatori dell’ascesa gerarchica in un certo ambito. Si tratta di intellettuali, professori, giornalisti, autori, artisti, architetti ecc. e dei cosiddetti “influencer”, che, per professione, forniscono insegnamenti e consigli su come salire o evitare di scendere in certe scale gerarchiche. Io suppongo che al giorno d’oggi vi sia una generale rimozione (in senso psicoanalitico) dell’interesse per le gerarchie sociali e della motivazione a raggiungere e mantenere status più alti possibili in quanti più ambiti possibili. In altre parole, tale motivazione viene spesso negata, mistificata e dissimulata, malgrado il fatto che, da sola, potrebbe spiegare la maggior parte dei comuni comportamenti sociali. Ritengo che la tendenza a conquistare e a difendere status desiderabili dovrebbe essere moderata per evitare eccessi distruttivi sia a livello sociale che individuale, e psicopatie come il narcisismo, la megalomania e la depressione nervosa. Tuttavia nessuna moderazione è possibile se non riconosciamo e non ammettiamo la presenza, in ognuno di noi, di motivazioni come quelle che ho descritto in questo articolo, che necessitano di una moderazione.

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