L’empatia non è sempre buona

L’empatia non è sempre buona

A mio avviso si parla troppo spesso (e a sproposito) dell’empatia come di qualcosa di assolutamente buono e desiderabile, qualcosa che molti auspicano che aumenti il più possibile in generale, come se da essa dipendesse la pace nel mondo, ovvero la comprensione e la cooperazione tra le persone.

Il vocabolario Treccani definisce l’empatia come “la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale”.

Per molti, tuttavia, empatia significa qualcosa di più, e cioè una condivisione di sentimenti, ovvero un rispecchiamento emotivo nel senso che se A è empatico rispetto a B, A tende a provare gli stessi sentimenti o le stesse emozioni di B. In effetti, quando tra due persone esiste un legame affettivo molto forte, come ad esempio tra una mamma e il suo bambino, una sofferenza di questo causa immediatamente e automaticamente una sofferenza nella mamma, e lo stesso vale per una gioia.

D’altra parte ogni umano desidera che il maggior numero possibile di altri provino i suoi stessi sentimenti, e soffre quando non riceve sufficienti dimostrazioni di empatia. Di quali sentimenti stiamo parlando? Di tutti, ovvero di attrazioni e repulsioni, paure e desideri, associati a certi oggetti, persone o idee.

L’accordo col prossimo, sia sul piano cognitivo che su quello emotivo è in effetti qualcosa di molto desiderabile in quanto necessario all’indispensabile cooperazione con gli altri.

Tuttavia non dobbiamo credere che l’empatia, intesa come rispecchiamento emotivo, sia sempre utile e piacevole. Infatti non lo è in due casi molto frequenti.

Il primo caso è quello in cui viene rispecchiata un’emozione dolorosa. In tal caso il dolore di una persona viene trasmesso alla persona empatica, la quale viene praticamente “contagiata” dal dolore. Questo contagio potrebbe alleviare il dolore della persona contagiante, ma costituisce comunque un danno per il contagiato, non solo perché questo prova un dolore, ma anche perché spesso il dolore rende meno lucidi, meno intelligenti, meno creativi e meno produttivi, quindi anche meno capaci di aiutare il sofferente a trovare una soluzione che allevi le sue sofferenze. Basta pensare a i danni che può fare un medico troppo empatico verso un paziente molto sofferente che sta curando.

Il secondo caso è quello in cui il sentimento rispecchiato è morboso, antisociale o immorale, come l’odio ingiustificato o ingiusto. Basti pensare all’empatia di cui Adolf Hitler godeva da parte della maggior parte del popolo tedesco durante la sua attività politica. La storia sarebbe stata meno tragica se il popolo tedesco fosse stato meno empatico verso Hitler e verso i filonazisti. L’empatia è un fattore di conformismo, nel bene e nel male, e in certi casi può costituire un ostacolo al progresso civile.

Per concludere, è importante distinguere l’empatia come interpretazione dei sentimenti altrui (senza necessariamente condividerli) dalla condivisione, o rispecchiamento, dei sentimenti interpretati. 

Nel primo significato l’empatia è molto utile, e raccomandabile, come mezzo di conoscenza del prossimo, della natura umana e delle situazioni sociali in cui ci si trova, per cui possiamo gestire le situazioni stesse con il “tatto” opportuno.

Nel secondo significato l’empatia potrebbe essere dannosa in quanto invalidante o in quanto fattore di imitazione del comportamento altrui anche quando esso è deprecabile.

In ogni caso occorre considerare che l’empatia  è un meccanismo automatico e involontario. Pertanto se ci rendiamo conto che stiamo involontariamente entrando in risonanza con i sentimenti di una persona, è bene chiederci se quei sentimenti sono sani o malsani, e se rispecchiarli non comporti un danno per noi o per la stessa persona che ci ha “contagiato” emotivamente.

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