L’ansia (che è forse il disagio mentale oggi più diffuso) potrebbe essere causata da un senso di colpa verso la comunità, cioè dalla supposizione inconscia di non aver compiuto abbastanza i propri doveri verso di essa, e di meritare perciò di esserne espulsi o emarginati.
Se ciò fosse vero, la terapia potrebbe consistere nello stabilire quale sia la comunità di riferimento, quali i doveri e quali le colpe, ovvero i doveri non assolti, i debiti non pagati, gli impegni non mantenuti.
Oppure (seconda ipotesi) l’ansia potrebbe essere causata dalla paura che i membri della comunità scoprano che il soggetto non si sente legato alla comunità stessa, non si sente parte di essa, ovvero è emotivamente estraneo e indifferente o perfino ostile ad essa. Nel caso tale estraneità o ostilità venisse scoperta, il soggetto sarebbe automaticamente espulso dalla comunità.
Mentre nella prima ipotesi il problema è risolvibile compiendo i dovuti doveri e ottenendo così il perdono da parte degli altri membri della comunità, nella seconda ipotesi il problema potrebbe essere irrisolvibile e irreparabile, specialmente dal punto di vista dell’inconscio.
Potremmo definire la seconda ipotesi la “sindrome della spia” dato che, nel caso la verità venisse scoperta, il soggetto diventerebbe automaticamente, inesorabilmente e notoriamente, un pubblico nemico della comunità.
Quanto sono realistici i rischi e i pericoli nelle due ipotesi? Direi molto poco, perché gli altri probabilmente non si curano del soggetto, dei suoi doveri, o delle sue eventuali finzioni, o se ne curano molto meno di quanto il soggetto creda. D’altra parte gli altri potrebbero avere gli stessi problemi del soggetto, o anche di più gravi.
In ogni caso, va detto che oggi viviamo in una società in cui il senso di comunità si viene sempre più perdendo, e con esso i problemi di fedeltà comunitaria. In altre parole, non c’è ormai quasi più nulla a cui essere fedele. La faccenda ha quindi un lato negativo e uno positivo. Resta il fatto che l’uomo ha un bisogno genetico di appartenenza a una o più comunità (a causa della nostra interdipendenza), e la frustrazione di tale bisogno ha probabilmente conseguenze patologiche.
Sia come sia, ciò che conta è essere rispettati e possibilmente benvoluti dalle persone che incontreremo, indipendentemente dalle comunità di riferimento. A tal fine la prima regola è quella di non criticare i nostri interlocutori, né direttamente, né indirettamente, ovvero di nascondere le nostre critiche nel modo più sicuro.
In questo ci verrà in aiuto l’autocensura inconscia, che ci spingerà in ogni momento a chiederci se ciò che stiamo facendo o che ci accingiamo a fare è socialmente rischioso, ovvero con quante probabilità attirerà su di noi antipatie o ostilità da parte delle persone della cui benevolenza abbiamo bisogno.
Per concludere, una semplice regola per evitare i sensi di colpa, sarebbe quella di non fare, per quanto possibile e opportuno, cose che non possano essere raccontate pubblicamente senza imbarazzo.