Io a ChatGPT: Scrivi un saggio a partire da questo aforisma:
La vita di un essere umano è contrassegnata da dilemmi. Uno di essi, forse il più importante, che si presenta continuamente, ad ogni proposta di condivisione che incontriamo è “condividere o non condividere”?
Risposta di ChatGPT:
Condividere o non condividere? Sulla soglia dell’esistenza intersoggettiva
“Condividere o non condividere?”: questa domanda, all’apparenza semplice, tocca il cuore della condizione umana. Non si tratta di una scelta occasionale, ma di un dilemma ricorrente, strutturale, che emerge a ogni possibilità di apertura all’altro. È una tensione costitutiva dell’esistenza, che ci chiama a decidere, ogni volta, se vogliamo restare chiusi nella nostra interiorità o esporci all’intersoggettività.
In questa tensione si rivela una delle strutture fondamentali dell’essere-nel-mondo, per dirla con Heidegger. L’essere umano non è un soggetto isolato, ma un essere-con (Mitsein): la sua identità si costituisce attraverso relazioni, scambi, esposizioni. Tuttavia, proprio perché ogni condivisione implica un’uscita da sé, essa comporta un rischio ontologico: l’essere che si espone si rende vulnerabile alla parola dell’altro, al suo sguardo, al giudizio, ma anche all’incomprensione, alla manipolazione, al rifiuto.
Condividere è dunque un atto che sfida l’ontologia della chiusura: rompe la sfera dell’autosufficienza narcisistica e introduce l’apertura verso l’alterità. In termini levinasiani, è un gesto etico primario: nell’atto di offrire qualcosa di sé — un pensiero, un’emozione, un bene — l’io riconosce l’esistenza dell’altro come irriducibile e degna di considerazione.
Ma la condivisione non è sempre possibile né sempre giusta. La decisione di non condividere può rappresentare un atto di tutela del sé, un’affermazione di autonomia, persino un gesto filosofico di resistenza all’inflazione della comunicazione, tipica delle società postmoderne. In un mondo in cui tutto è esposto, condividere può diventare un automatismo privo di intenzionalità, una simulazione dell’incontro. La non-condivisione, in questo contesto, assume una valenza etica: è un limite imposto contro la sovraesposizione, un rifiuto dell’economia dello scambio immediato.
Il dilemma “condividere o non condividere” mette in crisi ogni modello assoluto di etica relazionale. Ci obbliga a riconoscere che non esiste una regola universale, ma solo situazioni determinate, in cui occorre esercitare discernimento. Ogni scelta è situata, carica di implicazioni affettive, simboliche, talvolta politiche. Condividere un’idea può generare comprensione reciproca, ma anche strumentalizzazione; non condividere un dolore può salvaguardare l’integrità del sé, ma anche condannarlo all’isolamento.
In questo senso, il dilemma non è da risolvere, ma da abitare. Come ogni tensione tragica, esso non trova soluzione nel superamento dialettico, ma nella coesistenza dei poli opposti. L’essere umano si definisce proprio in questa oscillazione, in questa prassi dell’esitazione che lo accompagna nei luoghi più concreti dell’esistenza: l’amicizia, l’amore, la scrittura, la testimonianza, il silenzio.
Scegliere se condividere o no è allora un atto radicalmente umano, in cui si intrecciano etica, politica e ontologia. In ogni condivisione vera, c’è un eccesso che sfugge al calcolo: un dono, direbbe Derrida, che eccede l’economia dell’utile e dell’equivalente. Ma proprio per questo, ogni rifiuto di condividere può essere un atto di custodia del sacro.
In definitiva, il dilemma non chiede una risposta definitiva, ma una consapevolezza rinnovata: ogni scelta di condivisione è una forma di esposizione dell’essere; ogni rifiuto, un gesto di sottrazione che può custodire un’essenzialità. L’umano si forma e si deforma in questa soglia, fragile ma feconda, dove l’altro è sempre possibile e mai garantito.
