Ora sono solo nella mia stanza, ma prima o poi potrò (dovrò?, vorrò?) incontrare altri umani, e allora dovrò comunicare con essi. Infatti non potrò ignorarli (come se fossero cose inanimate o animali). Non si può ignorare un essere umano che ci sta davanti, ovvero non ci si può comportare come se non ci fosse.
Ogni incontro comincia con il solito protocollo (conscio o inconscio) di espressione delle proprie intenzioni e di riconoscimento dell’altro. Ognuno dovrà dire (in modo esplicito o implicito) chi è e cosa intende fare rispetto all’interlocutore, oltre ad indicare cosa pensa e che sentimenti ha verso di esso, e cosa da esso cerca o si aspetta.
Per indicare tutte quelle cose userà un linguaggio formale o informale, esplicito o implicito, fatto di parole, di modelli, di pattern, di gesti il cui significato “dovrebbe” essere condiviso.
Insomma, quando due persone s’incontrano esse sono tenute a dichiarare la propria identità sociale, le proprie intenzioni, le proprie pretese, e le proprie proposte l’una rispetto all’altra. Ciò può essere fatto in modi che possono essere più o meno “rispettosi”, nel senso che ognuno esprime, esplicitamente o implicitamente il grado di rispetto che ha per l’altro, grado che tiene conto anche del proprio status rispetto all’altro. In altre parole, i rispettivi status (che implicano le rispettive posizioni gerarchiche) vengono messi a confronto, e sul risultato del confronto ci può essere più o mneo accordo o disaccordo.
Si può dire che, sin dai primi attimi di ogni incontro usuale o inusuale, le persone devono mettersi d’accordo sul definire il rapporto gerarchico tra di esse, e il loro rapporto in generale, ovvero le rispettive appartenenze, i rispettivi ruoli, i rispettivi valori (etici, estetici e logici), ovvero i rispettivi obblighi e divieti, ecc.
Ovviamente, nell’incontro tra due persone, ognuna di esse può scegliere quanto rivelare e quanto nascondere di se stessa e delle proprie aspettative nei confronti dell’altra, ma tale scelta ha conseguenze importanti. Infatti, quanto meno io rivelo di me stesso, tanto più l’altro mi vedrà con diffidenza, e mi temerà, non sapendo quali intenzioni io abbia “realmente” nei suoi confronti, ovvero se mi può considerare amico o nemico, cooperatore o competitore, maestro o allievo ecc.
Il problema forse più imbarazzante che si pone nell’incontro tra due individui è l’eventuale disinteresse o disgusto di uno di essi (o di entrambi) verso l’interlocutore. Su questo aspetto ognuno applica solitamente un’autocensura. Infatti, scoprire che una persona non è interessata ad interagire con noi, o è disgustata dalla nostra presenza, ci rende quella persona antipatica, e stimola una certa ostilità (che diventa presto reciproca) nei suoi confronti. Per evitare tale ostilità, si sceglie solitamente di occultare o dissimulare i propri pensieri e i propri sentimenti verso l’altro.
Questa è la menzogna più comune: negare il fatto che non ci interessa, e forse ci disgusta, interagire con il nostro interlocutore del momento.
Tale menzogna è causa d’angoscia come ogni menzogna consapevole, in quanto comporta il timore che venga scoperta, e la necessità di nasconderla.
Ecco alcune domande fondamentali da cui dipendono i rapporti interpersonali:
- Quanto mi interessa interagire con te?
- Quanto ti interessa interagire con me?
- A quali scopi?
- A quali condizioni?
- In quali modi?
- Con quali limiti?
Tutte queste domande possono essere ridotte ad una (un cui X indica qualsiasi persona, me compreso, o l’interlocutore del momento):
Con chi, come, e perché X vuole o non vuole interagire?
Per concludere, se vogliamo superare l’angoscia delle menzogna sociale, ovvero la paura che il nostro disinteresse o disgusto venga svelato, conviene essere consapevoli di essa e del fatto che si tratta di qualcosa di molto comune, anzi, “normale”.