Articolo copiato da: La Repubblica
La felicità per me non ha motivazioni, non ne ha mai avute, per me è fatta di cose ridicole. La felicità per me era aprire la finestra al mattino, sentire l’aria fresca, guardare fuori. Alzarsi presto, aspettare che tutta la casa prendesse vita, sapere che dopo un po’ si sarebbero alzate le persone a me più care e che presto ci sarebbero state le loro voci intorno a me. E che poi avrei iniziato a scrivere. Questa era la felicità. Ora è più difficile, se apro la finestra o accendo la luce, vedo sempre lo stesso buio.
Oggi più che mai mi accorgo di aver legato la felicità al corpo. Ho voluto bene al mio corpo anche se l’ho trattato senza nessuna cautela. Ho bevuto per trent’anni una bottiglia di whisky al mattino e sono settantaquattro anni che fumo ininterrottamente. E il mio corpo non mi ha mai tradito. Oggi che lo sento sofferente, malandato, uno strumento arrugginito che fa fatica a mettersi in moto, mi intristisco e provo pietà per noi. Ma quando tento, con sforzo, di girare la manovella del mio corpo e quando lui risponde a dovere, provo di nuovo un sentimento leggero di felicità.
Con il mio cervello invece ho pochi rapporti di felicità, non è quasi mai presente quando sono felice.
Io la felicità l’ho trovata sempre nelle cose terrene, concrete, negli odori, nei sapori, nei rapporti umani, non nella letteratura. Di certo però la scrittura non mi ha mai portato infelicità, mi sono sempre divertito a scrivere, così come a leggere. Però ci sono state anche letture “infelici”. Poco tempo fa mentre stavo lavorando tranquillo su uno dei miei romanzi, all’improvviso il diavolo, o chi ne fa le veci, mi fece venire in mente Delitto e castigo. Così chiesi di rileggermi la pagina dove Dostoevskij descrive Raskòl’nikov quando sale le scale per andare ad ammazzare l’usuraia. E ad ascoltare quella pagina di una tale bellezza, di una tale bravura, di una tale felicità di scrittura, io mi sono avvilito perché ho avvertito il senso del mio fallimento.
Avevo un amico musicista molto bravo, Gino Negri, che aveva adattato le musiche di Kurt Weil per L’Opera da tre Soldi di Brecht al Piccolo Teatro. Aveva scritto delle operine rappresentate alla Piccola Scala, e un giorno tenne lì un concerto che si intitolava Costretto dagli eventi. Lui suonava il pianoforte e cantava e la prima canzone che attaccò diceva “Io mi sento di merda quando penso a Bach”. Ebbene, a me è accaduta la stessa cosa, sentirmi di merda di fronte a una pagina di Dostoevskij.
L’aspetto che più mi piace della felicità è che è duplicabile, se riesci a rinnovare dentro di te la memoria di un momento felice, quell’evento ha ancora un’eco di felicità. La felicità è un istante, l’accensione di un fiammifero che in quei pochi secondi di luce ti permette però di vedere a lungo.
Per esempio una mattina in campagna sentii a un tratto l’odore della citronella, un’erba selvatica che cresce nelle vicinanze dell’acqua. Ecco, io mi fermai, non feci più un passo, restai immobile a respirarne l’odore che mi riempiva i polmoni, me li slargava e in quel momento mi sentii in armonia, con me stesso, con le persone vicine e quelle lontane, con gli uomini e le donne che abitavano l’altra parte dell’emisfero della Terra. E rimasi fermo lì, in attesa. Durò ancora qualche istante, poi, forse il vento, portò via quell’odore ma io non mi intristii, ripresi a camminare e continuai a portarmene dentro la memoria.
Camilleri e la sua Sicilianita’,la felicità nei profumi ,nei colori ,l’improvvisa malinconia ,il senso del dramma :sentirsi una merda leggendo un grande scrittore.
Solo i grandi hanno il privilegio di sentirsi piccoli.