Il vocabolario Treccani definisce l’arroganza come “insolenza e asprezza di modi di chi, presumendo troppo di sé, vuol far sentire la sua superiorità”. Purtroppo tale termine viene invece spesso usato per qualificare chi esprime idee e opinioni diverse da quelle prevalenti nella comunità di appartenenza, specialmente per quanto riguarda i valori morali e, in minore misura, quelli intellettuali.
Infatti, ad eccezione della condanna della violenza e dello sfruttamento dei più deboli, sembra che la morale popolare, almeno in Italia, preveda ormai una sola colpa: quella di arroganza, intesa come il sentirsi, o il cercare di essere, migliori degli altri, e l’abitudine di giudicare il prossimo.
Questo tipo di moralità comporta una serie di conseguenze logiche e pratiche su cui conviene riflettere.
In base a tale moralità, nessuno avrebbe il diritto di giudicare i difetti morali altrui ad eccezione del grado di arroganza, che invece tutti dovrebbero, giudicare e condannare. L’arroganza sarebbe dunque il “peccato” più grave dopo la violenza e lo sfruttamento, e nessuno dovrebbe, ad esempio, accusare qualcuno di omissione di obbligo morale.
Conseguenza di tale moralità è, inoltre, che i concetti di bene e male, e la stessa etica, sono ormai diventati tabù o politicamente scorretti in quanto considerati come strumenti ed espressioni di arroganza. Infatti, normalmente è sufficiente che uno giudichi il bene e il male negli altri, per essere considerato arrogante. La giustificazione di tale opinione sarebbe che non esiste una definizione oggettiva del bene e del male e, pertanto, chi giudica si “arroga” una competenza completamente soggettiva e infondata. Il pericolo sarebbe dunque quello dell’arbitrarietà del giudizio per cui una persona buona potrebbe essere considerata cattiva e condannata ingiustamente, e viceversa, ragionamento che viene spesso accompagnato dall’evocazione dei capi di concentramento nazisti dove venivano sterminate persone ingiustamente considerate cattive.
La paura di essere considerati arroganti ha come conseguenza la banalizzazione dell’etica, ridotta alla sola condanna della violenza e dello sfruttamento dei più deboli, e ad un’idea di eguaglianza basata sulla stigmatizzazione del confronto etico tra esseri umani, per cui non è concepibile che una persona sia moralmente superiore ad un altra (ad eccezione degli ambiti sopra menzionati). E’ perciò comprensibile che le persone che adottano questo modo di vedere temano e disprezzino i cosiddetti arroganti, perché questi si permettono di dare giudizi morali in base ai quali potrebbero essere ritenuti inferiori ad altri.
Il fatto è che, inconsciamente, abbiamo tutti paura di essere considerati peggiori rispetto alla media della comunità a cui apparteniamo, e di essere, per tale motivo, emarginati o esclusi dalla comunità stessa.
D’altra parte, la democrazia, eliminando giustamente le disuguaglianze dei diritti, ha purtroppo eliminato anche le disuguaglianze dei doveri morali (e dei conseguenti meriti). Questa tendenza egualitaristica generalizzata e assoluta ha come conseguenza la deresponsabilizzazione morale degli individui e lo scoraggiamento della ricerca dell’automiglioramento. Infatti, chi cerca di migliorare se stesso finisce immancabilmente per diventare migliore di qualcun altro, cosa che, se desiderata o percepita dall’interessato, viene immediatamente condannata come arroganza.
Per concludere, io sono dell’opinione che, proprio perché non esistono criteri oggettivi di moralità, ognuno dovrebbe cercare di costruire una sua morale personale o adottarne una più o meno condivisa con altre persone, che permetta una convivenza e un’interazione pacifica, costruttiva e soddisfacente con altre persone, basata sul rispetto delle esigenze di tutte le parti in gioco.