Sulla cultura e la filosofia (di Anna Sanneris)

Sulla cultura e la filosofia (di Anna Sanneris)

Allo stato attuale della filosofia, ha senso parlare di un tema solamente se con esso si può rimettere in discussione l’intera postura del sapere, quantomeno del sapere di chi ne scrive. È il rapporto tra vita e sapere che difatti necessita urgentemente di essere ripensato, e con ciò anche il compito della filosofia.

Nietzsche, lucido «psicologo» – naturalmente in un senso molto specifico e molto diverso dallo psicologismo denunciato ad esempio da Husserl – dell’uomo del suo tempo, ma poi anche del nostro, ha una visione affatto nitida delle cancrene che lo affliggono, così come nitidamente scorge la malattia dualista dell’uomo moderno, mettendo anche in evidenza perché il dualismo vada in un certo modo superato, cosa che perlo più viene data per scontata, e perché non si possa pensare di superare il dualismo con un monismo, poiché infine non si tratta di sostituire alcun -ismo al dualismo, ma di comprendere questo, così da farne finalmente qualcosa. Anzitutto, dunque, la cosiddetta cultura ha perso ogni valenza culturale, ossia antropogenetica.

Ciò che si dice cultura, difatti, è tanto più culturale quanto più irrilevante, quanto meno influisce sulle azioni delle persone. Siamo evidentemente al culmine del platonismo, e di un platonismo che sarebbe del tutto ingeneroso attribuire tout court a Platone. La cultura è un contenuto, e l’uomo è un contenitore, la forma di tale contenuto è l’effimero, l’irrilevante: importa ciò che è interiore. Che cosa sia questa tanto celebrata interiorità – talvolta celebrata proprio a proposito del dolore – è cosa però assai difficile da cogliere, come il dionisiaco senza l’apollineo, sicché, alla prova dei fatti, l’interiore, la massima concretezza che sarebbe soltanto da esprimere, non ha realtà, nel senso dell’effettività tedesca (Wirklichkeit); esso esiste ma è un mero prodotto di scarto dell’esteriore, che invece, a sua volta, viene preso come in difetto rispetto ai propri stessi escrementi. Ma torno a Nietzsche; la nostra è una cultura interiore, non una vera cultura, ma un pensiero di cultura, una cultura dimezzata, un’intenzione di cultura che guarda a quello che crede di fare senza vedere ciò che realmente produce: ossia null’altro che un branco di eruditi incapaci di giustificare nemmeno una virgola del proprio operato, se non affidandosi a formule retoriche di sicuro richiamo per un ancor più numeroso drappello di imbecilli che, credendo di aver fatto almeno un po’ di fatica del concetto, ora esigono il proprio riconoscimento.

Così la grande cultura si rivela come la più piccola, se è vero che “Grandezza: significa imprimere una direzione. Nessun fiume è di per sé grande e ricco: è il fatto di accogliere e di convogliare in se tanti affluenti, ciò che lo rende tale”, scriveva Nietzsche In Umano troppo Umano e Nei Frammenti Postumi.

La cultura è uscita dalla vita, vi è uscita nel momento stesso in cui è stata nominata – e con essa la vita. Ora, è evidente che non si possa semplicemente pensare di tornare indietro facendo finta di niente: l’Uno è irrecuperabile, lo è sempre stato, da che il tempo è tempo. Si tratta piuttosto – suggerirebbe Nietzsche – di riportare la cultura nella vita, e la vita nella cultura, attraverso l’assunzione della scissione prodottasi e della sua condizione di possibilità: il supporto mai realmente guardato, vera cultura risolutiva, guardata solo nei suoi contenuti: «nelle enciclopedie ogni valore si trova solo in ciò che vi sta dentro, nel contenuto, non in ciò che vi sta sopra o che è rilegatura o copertina; e quindi tutta la cultura moderna è essenzialmente interna: esternamente il rilegatore vi ha stampato qualcosa come “Manuale di cultura interna per barbari esterni”». Si potrebbe approssimativamente riassumere così: il sapere è interno non perché la coscienza sia un contenitore, la cultura è inutile – al di là dei giochi di parole aristotelicheggianti sull’«utilità dell’inutile» – non perché le cose grandi non debbano misurarsi con le bassezze dell’esistenza, ma perché per l’uomo moderno la cultura coincide con ciò che c’è scritto nel libro: è la scrittura che nasconde il proprio fondo, è per la scrittura che lo sfondo si pone come indifferente.

Si pensi anche soltanto alla nostra pedagogia – «soltanto» a come diventiamo quelli che siamo -divisa in una pedagogia accademica, ufficiale e statale nella quale tutti crediamo di credere, e in una pedagogia bassa alla quale sovente cediamo, sentendoci in colpa della mancata realizzazione di un – in quanto tale – irrealizzabile ideale.

Un’epoca che soffre della cosiddetta cultura generale, ma non possiede una vera civiltà e nella sua vita non ha affatto un’unità di stile, non saprà ricavare nulla di buono dalla filosofia. Nessuno osa realizzare personalmente quanto è comandato dalla filosofia . Il filosofare moderno ha sempre un colorito politico e poliziesco, è indirizzato dai governi, dalle Chiese, dalle accademie, dai costumi, dalle mode, dalle viltà degli uomini, alla sola conquista dell’apparenza erudita. Ci si limita a sospirare: «se la situazione fosse diversa!», oppure a contestare: «una volta le cose stavano così».

È stupefacente la precisione fenomenologica con cui Nietzsche riesce a descrivere la nostra cultura, nella quale la filosofia è ridotta o a lamento moraleggiante, quando non a discorso commuovente, o a discussione specialistica sull’assoluto nulla, cioè su oggetti inventati da un sapere per la sua sola sussistenza, senza mai che il sapere di turno si metta in questione. Non c’è da stupirsi, dunque, che oggi il filosofo, prossimo alla propria definitiva ed irrevocabile liquidazione, debba subir inoltre il biasimo di scienziati e giornalisti, impegnati dicono loro – nella lotta contro il nichilismo – proprio loro che ne sono l’emanazione più tipica.

L’uomo è un animale dotato di interiorità, si diceva, e in questa viene fatto risiedere il massimo valore, conviti che sia alcunché di originario, di eterno. Ci troviamo così dinnanzi al «difetto ereditario di tutti i filosofi», ossia la «mancanza di senso storico», che li fa arrivare a «prendere di punto in bianco la più recente configurazione dell’uomo, quale essa si è venuta determinando sotto la pressione di determinate religioni, anzi di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si debba partire. Non vogliono capire che l’uomo è divenuto e che anche la facoltà di conoscere è divenuta . Scrive sempre in Umano troppo Umano: “Ora tutto l’essenziale dell’evoluzione umana è avvenuto in tempi remotissimi, assai prima di quei quattromila anni che all’incirca conosciamo e durante i quali l’uomo non può essere gran che cambiato. Ma nell’uomo attuale il filosofo vede «istinti» e suppone che essi appartengano ai fatti immutabili dell’uomo e possano quindi fornire una chiave alla comprensione del mondo in generale: tutta la teologia è basata sul fatto che dell’uomo degli ultimi quattro millenni si parla come di un uomo eterno, al quale tendono naturalmente dalla loro origine tutte le cose del mondo. Ma tutto è divenuto; non ci sono fatti eterni: così come non ci sono verità assolute. Per conseguenza il filosofare storico è da ora in poi necessario, e con esso la virtù della modestia.”

Se tutto diviene, non c’è alcun dentro nell’uomo che non sia già un prodotto del divenire del fuori, persino i cosiddetti «sentimenti profondi» – come può essere considerato il caso del dolore -, lungi dall’avvicinarsi ad alcunché di assoluto, sono detti così solo perché «vengono regolarmente suscitati, in modo appena percepibile, certi complicati gruppi di pensieri», che di per sé non danno alcuna garanzia di veridicità.

[Anna Sanneris]

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