Competizioni e conflitti palesi e nascosti

Competizioni e conflitti palesi e nascosti

(Introduzione al caffè filosofico del 8/9/2022)

Il tema che oggi affrontiamo presenta, a mio avviso, tre problematiche principali.

La prima riguarda la natura della competizione tra esseri umani, e in particolare la sua ragion d’essere, i danni e i benefici che essa produce, e la questione se essa sia evitabile o regolabile.

La seconda riguarda la relazione tra competizione e morale, ovvero se, in quali casi e in quale misura la competizione debba essere considerata immorale.

La terza problematica, che è conseguenza delle prime due, riguarda il fatto che la competizione avviene spesso in modo nascosto, dissimulato o rimosso (in senso psicoanalitico), sia per aumentarne l’efficacia, sia perché non si vuole apparire come immorali né agli occhi altrui, né a quelli propri.

Per “conflitto” intendo l’effetto di una competizione, cioè la messa in campo di forze, armi, strumenti e  risorse, e l’attuazione di tattiche ei strategie da parte di una persona o di un gruppo, allo scopo di prevalere rispetto ad un’altra persona o gruppo per il possesso esclusivo di certe risorse o il raggiungimento di certe posizioni gerarchiche o di prestigio. Direi quindi che un conflitto è una competizione attiva, cioè in azione, e che dietro ogni conflitto c’è una competizione, ovvero l’intenzione di prevalere in uno o più contesti. D’altra parte una competizione che non ha ancora dato luogo a conflitti conclamati può essere definita come conflitto “in potenza”.

Suppongo che la competizione tra esseri umani sia innata, ovvero scritta nel nostro codice genetico, e che corrisponda ad un bisogno o istinto specifico. Infatti mi sembra plausibile che essa abbia un valore in senso evoluzionistico, nel senso che prevalgono e si riproducono più facilmente e con i migliori partner sessuali, gli individui più competitivi, che sono anche quelli più sani, più forti e più intelligenti. Tuttavia anche il bisogno di cooperazione è innato e indispensabile per la conservazione della specie, per cui ci deve essere un equilibrio tra bisogno di cooperazione e bisogno di competizione.

La relazione tra competizione e morale è molto stretta. Infatti l’obiettivo della morale è soprattutto quello di eliminare o ridurre la competizione e i conflitti che ne conseguono. La logica di una morale consiste nel promettere benefici (immediati e/o dopo la morte) in cambio di una rinuncia a competere o a confliggere. Il beneficio immediato più evidente è quello di favorire la cooperazione sociale (di cui abbiamo un assoluto bisogno), ottenere la pace (evitando così  i danni e lo stress dei conflitti) e ottenere l’approvazione e i favori da parte delle autorità (politiche, religose, intellettuali, familiari, comunitarie) a tutti i livelli di aggregazione sociale.

Dobbiamo tuttavia osservare che in molti casi è la stessa morale (religiosa o patriottica) a chiedere all’individuo, o ad imporgli, di partecipare ad un conflitto.

L’effetto della morale sulla competizione, come su altre tendenze umane ritenute immorali, non è tanto quello di ridurre i comportamenti immorali, ma quello di dissimularli. Intendo dire che la mente umana tende a rimuovere nell’inconscio le immoralità del soggetto, e a “giustificarle” cioè a rendere leciti i propri comportamenti secondo logiche accomodanti ed elastiche, e a dare pesi diversi alle immoralità proprie e altrui.

Subito dopo l’essere accettati in una comunità, abbiamo bisogno di conquistare in essa la posizione gerarchica (formale o informale, esplicita o implicita) più alta che ci sia possibile raggiungere in funzione delle nostre risorse e capacità, e di difenderla nella competizione con gli altri.

Tuttavia difficilmente una persona ammette che ha fatto ciò che ha fatto per aumentare il proprio status sociale o per evitare una sua diminuzione, ma questa, come spiega bene Will Storr nel suo libro “The Status Game”, è una delle motivazioni più comuni del comportamento umano in ogni contesto sociale (perfino nei caffè filosofici!).

Per concludere, io penso che dovremmo prendere coscienza del nostro istinto di competizione e accettarlo,  per controllarlo meglio, ovvero per evitare che dia luogo a comportamenti inutili o controproducenti. Negare di essere competitivi e di essere sempre impegnati nel “gioco dello status” costituisce un inganno e un autoinganno che non ci aiuta a mantenere la competizione e i conflitti entro limiti sostenibili per noi stessi e per gli altri.

(Vedi anche Interdipendenza, cooperazione, competizione, violenza, autorità)

 

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