Ognuno, consciamente o inconsciamente, valuta ogni altro e si sente valutato da ogni altro secondo certe gerarchie (intelletto, etica, estetica, politica, forza fisica, competenza in certe funzioni, conoscenza in certi campi, abilità in certe attività ecc.).
Ogni valutazione reciproca discordante tra due persone può dar luogo ad un conflitto interpersonale per cui ciascuno cerca di indurre l’altro a modificare le valutazioni di se stesso e dell’altro, in modo da renderle coerenti con le proprie.
Chi si sente sottovalutato da un altro, tende automaticamente a pensare che sia l’altro a sopravvalutarsi (dato che il primo presume di essere stato valutato dal secondo in modo improprio).
Se uno si sente sottovalutato dall’altro, e/o ritiene che l’altro si sopravvaluti, cercherà di dimostrargli che ha torto, che è in errore, che ha fatto qualcosa di sbagliato (vale a dire, in altre parole, che vale meno di quanto pensi).
I tentativi di correzione al ribasso della presunta sopravvalutazione vengono solitamente percepiti, da chi li subisce, come umiliazioni, e chi si sente umiliato reagisce solitamente cercando a sua volta di umiliare l’umiliante. Tale dinamica costituisce un circolo vizioso, con un’escalation potenzialmente illimitata.
Se il conflitto si dimostra insanabile e non intervengono fattori di moderazione o di inibizione, ne consegue un’ostilità tra i contendenti che può sfociare nel disprezzo reciproco, nell’offesa, nella violenza e nell’allontanamento unilaterale o bilaterale.
Allo scopo di evitare simili spiacevoli esiti, molti si astengono dal valutare gli altri e dall’autovalutazione, e considerano il giudizio e la critica deleteri, al punto da giudicare male chi giudica, per il solo fatto che esprime giudizi senza avere particolari titoli pubblici per farlo.
Questa fuga dalla valutazione, dal giudizio, dalla critica, nuoce al progresso civile e morale, in quanto ci può essere progresso civile e morale solo criticando i pensieri e i comportamenti erronei propri e altrui.
Pertanto, in caso di divergenze di opinioni con qualcuno, dovremmo cercare di criticare solo le idee che riteniamo errate e non la persona che le esprime, e non dovremmo sentirci svalutati come persone (a meno che l’altro non sia esplicito in tal senso).
L’astensione dalla valutazione “ad personam” è tuttavia alquanto difficile allorché si cerca di analizzare i motivi per cui l’interlocutore pensa, o si comporta, in modo erroneo, dal momento che tali motivi sono spesso psicologici, più che logici, vale a dire che investono la personalità (e quindi la persona) del soggetto.
Infatti un ragionamento può comportare lacune e salti logici (spesso associati a paure e/o a repulsioni) dovuti a particolari strutture cognitive ed emotive dell’inconscio, di cui il soggetto è raramente consapevole.
Dovremmo allora limitarci a dire che certe idee o certi comportamenti del nostro interlocutore sono a nostro avviso erronei, senza avanzare ipotesi o spiegazioni “psicologiche” circa i motivi degli errori.
Così facendo eviteremo tanti conflitti, ma non contribuiremmo a far luce sulle cause psicologiche dei mali della società.
Carissimi tutti, esordisco affermando che “valutare”, in genere, non è mai una buona idea. Semmai mi limito a manifestare il mio punto di vista Una valutazione positiva è percepita dal nostro interlocutore come fonte di ammirazione, e, per questo, non lo infastidisce. Di contro, una valutazione negativa, indispone il nostro interlocutore fino a farlo reagire in malo modo. La mia esperienza mi ha suggerito di non valutare mai la persona con cui mi confronto, mantenedomi saldo solo sui contenuti del discorso con un profilo emozionale basso, tale da non indisporre l’interlocutore. Inoltre necessita attrezzarsi di una buona dose di educazione. Nel caso in cui quest’ultimo dovesse dimostrare aspetti caratteriali di aggressività patologica, mi rifiuto di interloquire, saluto cordialmente e fuggo a gambe levate.
L’ analisi di Bruno è interessante e va contro i dettami degli psicologi “comportamentisti ” che indicano una atarattica astensione dal dare giudizi e una più accogliente accettazione del comportamento altrui , valutato e inserito in una griglia “relazionale” che ci permetta di scegliere il ruolo da avere nei confronti dell’altro..senza fuggire…
Ciò che insegnano questi psicologi però, la sospensione del giudizio, va a bloccare la nostra naturale esigenza di scegliere di rapportarci con persone più idonee a noi..solo loro ( o lo psichiatra ) non devono essere selettivi con i pazienti…noi siamo liberi di analizzare e scegliere , per mezzo del giudizio , chi preferiamo per comunanza di “pensieri e sensazioni ” e di conseguenza decidere se frequentare o no.
Caro Bruno c’è anche da dire che molto spesso ciò in cui crediamo e riteniamo essere un criterio sicuro che guida il nostro comportamento non e poi messo in atto. Ovvero l’azione non è coerente con l’idea.
Siamo certi di essere esempi concreti di quanto sosteniamo?
No, non possiamo esserne certi. E questa incoerenza tra pensieri e comportamento effettivo è un ulteriore problema.
Personalmente ,nella mia vita cerco di astenermi dal trasformarla in un campo di battaglia di idee, prove di forza fisiche e psichiche, tentativi di affermazione o sopraffazione, difesa da umiliazioni e svalutazioni …. e via discorrendo.
Tutte le volte che mi è possibile cerco di stare lontana da persone che vedono le relazioni interpersonali in questi termini e che cercano di trascinarmi in questo pantano.
Non sempre questo è possibile, ma quando posso scegliere preferisco orientarmi verso situazioni di vita che favoriscano serenità e armonia con me stessa e con il mondo.
“La mente é una scimmia”, e i pensieri corrono di qua e di là, saltando da un ramo all’altro. I giudizi sono pensieri, difficili da frenare, contenere, controllare. Soltanto una mente allenata, capace di discernere, puó riuscire a contenere il pensiero compulsivo, di cui il giudizio fa parte, e trovare nella calma una visione più equanime del mondo. Una calma oconcentrata si può raggiungere con un paziente lavoro su se stessi e, come raccomandavano anche gli antichi , con la cura di sé (hépimeleia heautou
Analisi importante quella di Bruno, tutti valutiamo anche se non vogliamo; il difficile è mantenere il comportamento indipendente dalla valutazione, almeno entro certi limiti.
Un esempio: valuto incompetente e arrogante una persona (caso molto frequente di abbinamento); interagisco quindi con cautela sugli aspetti professionali (non mi fido), ma cerco di sorvolare sull’arroganza. Quando però il comportamento incompetente rischia di danneggiare qualcuno (qualche volta anche la persona in questione) non mi esimo dall’intervenire. Se poi insiste per imporre la sua idea allora posso anche fargli notare la sua arroganza e “uscire dalle righe”.
Idem per tante caratteristiche che scorgo presenti o assenti negli altri, tra cui onestà, generosità e, la più importante di tutte, intelligenza. Non ho nessuna difficoltà a valutare una persona più intelligente di me. A quel punto è ancora più importante che io mi formi un giudizio sulle altre sue caratteristiche.
Con l’esperienza credo di aver capito che la cosa migliore è iniziare dando piena fiducia all’interlocutore, con una aspettativa sempre positiva. La correzione però è necessaria, in più o in meno.
Può essere benevola o malevola e nel mondo del lavoro prevale quella malevola. Tra l’altro, la scoperta di un punto debole apre la strada al mobbing, che credo (spero) di non avere mai praticato, ma che ho visto praticare scientificamente e ho cercato di combattere.
Ci sono stati un paio di casi in cui il bersaglio del mobbing ero io, ma tra i soprannomi raccolti lavorando, uno mi rappresenta bene in quelle situazioni: “bestiaccia”. Per essere sincero, però soffrendone.
Per quanto riguarda il giudizio, esso consta di due elementi: uno valutativo e uno reattivo. Sia il primo che il secondo possono essere distorti. La reazione a un comportamento altrui può essere astratta, omaggiando principi etici slegati dal nostro reale sentire (un “giudizio per conto terzi”), oppure pragmatica, legata ai nostri bisogni. Una persona “maleducata” può attuare comportamenti che ci danneggiano realmente, ma anche limitarsi a ignorare regole in cui noi “crediamo” (senza saper bene perché) ma che in fondo non sono razionali. Allo stesso modo, possiamo reagire negativamente a chi non la pensa come noi sia perché ne siamo realmente turbati, sia perché omaggiamo il principio astratto (e irrazionale) di non poter sopportare il dissenso.
Il problema del giudizio è che esso è spesso cattivo giudizio, idealistico e poco pragmatico. Anche la reazione al cattivo giudizio altrui è spesso idealistica e poco pragmatica. La “dura” verità è che “it takes a man to suffer ignorance and smile” (Sting, Englishman in New York).
Aggiungo che non credo si possa imparare a giudicare bene (in riferimento all’elemento di reazione), ma che la qualità del giudizio dipenda da fattori sistemici, presenti e passati, non affrontati che deviano e inibiscono le nostre capacità naturali.
Condivido molto il punto sull’astenersi dal valutare come segno evidente del declino civile. Un punto che invece aggiungerei è quello relativo al contesto e al linguaggio non verbale che lo determina in larga misura. Tutte le comunicazioni dipendono dal contesto riguardo al significato. Possono dunque darsi molteplici contesti in cui la disconferma non genera prevalentenente conflitto ma soprattutto apprendimento. All’opposto in altri contesti la disconferma può persino scatenare una guerra. Morale, senza il prerequisito del contesto diventa molto difficile argomentare in astratto sugli effetti di una comunicazione
Condivido. Infatti i significati dei gesti e delle parole dipendono dai contesti, e questi meritano di essere indagati ancor prima dei messaggi.