Competizione e conflitto non sono la stessa cosa, ma il secondo può essere una conseguenza della prima. Infatti, sebbene ci possa essere una competizione senza conflitto (che in tal caso viene solitamente chiamata “leale competizione”) accade spesso che una competizione, specialmente se nascosta o dissimulata, dia luogo ad un conflitto.
In un conflitto, l’obiettivo di ciascun contendente è prevalere in un contrasto dimostrando non tanto la propria superiorità in termini di capacità e di valore, quanto la malvagità, il disvalore o il demerito dell’avversario. In un conflitto si tende infatti a dimostrare che l’avversario è così “cattivo” o in errore da meritare una punizione e/o una degradazione, formale o informale, in qualche gerarchia (politica, intellettuale, morale, estetica, economica ecc.), e/o la perdita di qualche diritto.
In un conflitto, solitamente il bias cognitivo di ogni contendente dipinge l’avversario nei toni più sfavorevoli, manipolando ai propri fini la narrazione del comportamento altrui.
In un conflitto, si fa solitamente un “processo” arbitrario ai pensieri e alle intenzioni inespresse dell’avversario, interpretando nel modo ad esso più sfavorevole (eticamente e intellettualmente) le sue parole e il suo comportamento.
In un conflitto, si cerca prima di tutto di giustificare il conflitto stesso attribuendone la causa, cioè la colpa, all’avversario, con argomenti scelti ad hoc, nascondendo o dissimulando i veri motivi del conflitto, che sono solitamente competitivi, ovvero il desiderio di prevalere sull’altro in qualche gerarchia o in qualche interesse.
Mentre una competizione leale può essere costruttiva, un conflitto è quasi sempre distruttivo in quanto tende a sopprimere o a diminuire la vitalità, la potenza, la reputazione e/o il successo dell’avversario. Infatti spesso il conflitto è una conseguenza dell’invidia e/o della gelosia.
Un particolare tipo di conflitto può nascere in caso di divergenza di opinioni su un certo tema. Infatti, se una persona A considera sbagliata una certa opinione o convinzione del suo interlocutore B, questo potrebbe interpretare l’espressione di un disaccordo da parte di A come una critica rivolta alla persona di B, cioè al suo modo di ragionare, alle sue capacità cognitive, alla sua intelligenza. In tal caso B prende la critica espressa da A come un’offesa personale, ovvero come una mancanza di rispetto, un insulto, una umiliazione, e reagire di conseguenza.
Succede allora tipicamente che la reazione di B non consiste in un’argomentazione logica tesa a confutare la critica espressa da A nei confronti dell’opinione di B, ma in un’accusa, rivolta ad A, di essere arrogante e irrispettoso. In altre parole, A viene accusato di non considerare B degno di ascolto, di non rispettare B, di non fare alcuno sforzo per capire il suo punto di vista, e di ritenersi superiore a B ignorando verità che per B sono evidenti e indiscutibili, e che smentiscono o contraddicono l’opinione di A.
A quel punto A non ha alcuna arma per difendere la sua posizione, dal momento che il conflitto si è spostato dal piano razionale dialettico (caratterizzato da una tesi e da un’antitesi) a quello del giudizio morale e/o intellettuale personale, ovvero del “processo alle intenzioni”. Infatti, a nulla valgono le assicurazioni di A sul fatto che egli non intende affermare una sua presunta superiorità rispetto a B, né criticare il carattere o l’intelligenza di B, ma solo proporre un’argomentazione o una logica alternativa rispetto a quella di B, e che A ritiene logicamente più corretta, più completa e/o più rispondente alla realtà dei fatti.
Quando un conflitto dialettico si trasforma in uno ad personam, vale a dire in uno scontro in cui non si criticano più le idee dell’interlocutore, ma il suo carattere e le sue intenzioni polemiche, il conflitto è generalmente insanabile e può dar luogo a un’escalation che porta solitamente alla rottura, in malo modo, della relazione tra i contentendi.
Infatti, un conflitto termina solitamente quando almeno uno dei contendenti viene sconfitto irrimediabilmente e accetta la sconfitta, o quando uno dei due decide di rompere la relazione interpersonale abbandonando al tempo stesso la contesa dialettica.
Dato che nella nostra civiltà i conflitti sono generalmente deprecati, si dà solitamente molta importanza allo stabilire chi sia l’iniziatore, ovvero la causa, di un conflitto in cui si è coinvolti, e ovviamente ciascuno dei contendenti tende a dimostrare che la responsabilità morale del conflitto ricade sull’avversario.
Ci sono casi relativamente semplici in cui il conflitto è evidentemente iniziato da uno dei due avversari, per cui è facile individuare quale parte sia l’aggressore, e quale l’aggredito. Tuttavia la situazione da cui scaturisce il conflitto può essere talmente complessa che entrambe le parti possono essere considerate aggressori e vittime allo stesso tempo.
Inoltre avviene spesso che uno o entrambi i contendenti in un conflitto siano inconsapevoli delle proprie reali motivazioni e dei propri “attacchi”, e credano sinceramente di essere vittime di un’aggressione o di un’offesa. In tal caso ognuno si sente autorizzato a reagire per “legittima difesa” e in una misura a suo parere proporzionale all’offesa ricevuta. Ma la misura dell’offesa è sempre soggettiva e ognuno tende a sovravvalutare le presunte offese ricevute e a sottovalutare quelle emesse, che non vengono nemmeno considerate offese, ma giuste reazioni difensive e contributi all’affermazione della verità. Il risultato è una escalation del conflitto (un processo che Gregory Bateson chiama “schismogenesi”) in cui ad ogni transazione offensiva segue una reazione ancora più offensiva, fino a causare una rottura, più o meno violenta, della relazione tra le parti.
A conclusione di questo lungo discorso, penso sia opportuno porsi domande come le seguenti: perché gli esseri umani competono? perché la competizione umana è spesso sleale? perché per molti la competizione è immorale? In un altro articolo cercherò di rispondere a queste domande.