Conviene partire da un fenomeno che tutti conoscono: il piacere di condannare. «Un brutto libro» si dice, oppure «un brutto quadro», e si ha l’aria di dire qualcosa di positivo. Al tempo stesso, il volto e l’atteggiamento tradiscono la soddisfazione di esprimersi così. La forma dell’espressione inganna: ben presto essa si trasforma in giudizio sulla persona. «Un cattivo scrittore» o «un cattivo pittore»: è questo che veramente si intende, ed è come se si dicesse «un uomo da poco». È facilissimo cogliere persone note o sconosciute, e se stessi, nell’atto di comportarsi così. Il piacere di esprimere una sentenza negativa è sempre inconfondibile.
È un piacere duro e crudele, che non si lascia sviare da nulla. La sentenza è solo una sentenza quando viene pronunciata con una sorta di temibile sicurezza. Essa ignora indulgenza e precauzione. È presto trovata; ed è perfettamente coerente con la sua natura proprio quando scaturisce senza ponderazione. La passione che essa tradisce si collega alla sua rapidità. Le sentenze incondizionate e rapide fanno sì che il piacere si dipinga sul volto del sentenziante.
Donde ha origine tale piacere? Si spinge via da sé qualcosa, si relega qualcuno in un gruppo di inferiori, e ciò presuppone che il sentenziante appartenga a un gruppo di migliori. Ci si eleva svilendo gli altri. La contrapposizione di valori che si esprime nella contrapposta condizione degli inferiori e dei migliori viene considerata naturale e necessaria. Ciò che è buono esiste per distinguersi da ciò che è cattivo. L’uomo stesso stabilisce ciò che pertiene all’uno o all’altro ambito.
Ci si arroga in tal modo il potere di giudice. Ma solo apparentemente il giudice sta nel mezzo, sul confine che separa il bene dal male. In ogni caso, infatti, egli si annovera tra i buoni. La legittimazione del suo ufficio si fonda soprattutto sul fatto che egli appartiene inalterabilmente al regno del bene, come se vi fosse nato. Egli sentenzia in continuazione. La sua sentenza è vincolante. Ci sono soggetti ben determinati sui quali è chiamato a giudicare; la sua vasta conoscenza del bene e del male deriva da una lunga esperienza. Ma anche coloro che non sono giudici, che nessuno ha incaricato di giudicare, che nessuna persona di buon senso incaricherebbe di giudicare, si arrogano continuamente il diritto di pronunciar sentenze su ogni argomento, senza alcuna cognizione di causa. Quelli che si astengono dal sentenziare poiché se ne vergognerebbero, si possono contare sulle dita.
La malattia del sentenziare è una delle più diffuse tra gli uomini: in pratica, tutti ne sono colpiti. Cercheremo ora di metterne a nudo le radici.
L’uomo sente profondamente il bisogno di suddividere in determinate categorie tutte le persone che può immaginarsi. Ripartendo in due gruppi contrapposti la massa slegata e amorfa delle persone che lo circondano, egli conferisce loro una certa densità. Concentra i due gruppi come se dovessero lottare l’uno contro l’altro, li radicalizza e li colma di ostilità. Così come se li rappresenta, così come vuole che siano, i due gruppi possono essere solo contrapposti. Sentenziare sul «buono» e sul «cattivo» è il più antico strumento di classificazione dualistica, la quale non è mai interamente concettuale, né interamente pacifica. Questo tipo di giudizio poggia sulla tensione fra «buono» e «cattivo», che il sentenziante crea e rinnova.
Tale processo sta fondamentalmente all’origine della tendenza a formare mute ostili, destinate a trasformarsi poi in mute di guerra. Estendendosi ad ogni ambito e ad ogni attività della vita umana, quel processo si rarefà. Ma anche quando esso si svolge pacificamente, anche quando si limita ad esprimersi in una o due parole di sentenza, conserva presente in germe la tendenza ad amplificarsi in attiva e cruenta ostilità fra due mute.
Chiunque si trova in mezzo alle mille occupazioni della vita, appartiene agli innumerevoli gruppi di «buoni», cui si contrappongono altrettanto innumerevoli gruppi di «cattivi». Dipende solo dall’occasione il fatto che l’uno o l’altro di tali gruppi si trasformi per eccitazione in muta e prevenga la muta nemica scagliandosi su di essa.
Sentenze apparentemente pacifiche divengono così condanne capitali contro il nemico. I confini del bene sono nettamente fissati, e guai al cattivo che si permetta di mettervi piede. Egli non ha nulla da cercare nel recinto dei buoni e dev’essere annientato.
(da “Massa e Potere”, di Elias Canetti)